Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile

martedì 15 dicembre 2009

Piccoli editori crescono, in barba alla crisi

Piccoli editori crescono.
se non so più quale sia la discriminante tra un piccolo editore che non sbaglia un colpo, un grosso editore che manda al macello i propri autori, un grosso editore che non azzecca un colpo da dieci anni e un grosso editore che ha talmente poca cura dei propri titoli da non accorgersi di spararne uno uguale a un altro uscito da appena un anno.
Ma si parlava di piccoli editori che crescono e anche se non ho alcun legame con loro ho scoperto con piacere che una delle realtà più interessanti, anche se non più giovanissime, come Minumum fax ha segnato nell'anno di crisi 2009 il proprio maggior risultato di sempre e ha superato per la prima volta la soglia dei 2 milioni di euro, con un incremento di fatturato del 28% rispetto al 2008.
Secondo un'indagine Nielsen, il cui indice delle vendite dei libri è l'unico attendibile, anche se (ahimè) non tiene conto della grande distribuzione (ipermercati e supermercati) Minimum fax si attesta al terzo posto tra gli editori italiani col più alto indice di crescita.
Ha sicuramente influito su questo dato il lancio del titolo trainante della stagione, Revolutionary Road di Richard Yates, che (ripubblicato in occasione dell'uscita del film di Sam Mendes) ha superato le 50.000 copie. Con ancora più piacere ho scoperto che tra gli altri titoli significativi c'è Il tempo materiale di Giorgio Vasta.
Leggendo questi dati ho sorriso perchè la mia memoria è andata a tanti anni fa, quando una mia amica iniziò a collaborare con loro. "Sono una banda di sciamannati" mi disse, "ma andranno lontano, ne sono sicura". Lei, però, un po' come fece Simon Colley con i Duran Duran, non ebbe la lungimiranza di capire quanto lontano sarebbero arrivati e finì per dedicarsi ad altro.

sabato 12 dicembre 2009

Scrittori e scriventi

Dovevamo essere in dodici, ci ritroviamo in tre. Dodici, certo, non lo saremmo stati mai. Le possibilità di vedere la Salma e Scarpa sullo stesso palco o forse anche solo nella stessa sala senza che la tensione fulmini qualche innocente sono infinintesimali. Per gli altri, si sa, valgono le regole delle allegre comitive: pacche sulle spalle, promesse di non perdersi di vista e poi ognuno per la sua strada. Strade che a volte tornano a incrociarsi - come è accaduto a me e a Massimo Lugli travolti dalle novità sul caso Orlandi - o agli altri che si ritrovano periodicamente nelle fiere, nei saloni, nei festival e ai premi.
Noi ci siamo ritrovati a Benevento: io, Giorgio Vasta e Filippo Bologna. Una missione rapida e indolore. Addirittura piacevole: andare a incontrare i ragazzi delle scuole superiori per parlare di libri e non solo di libri.
Vasta lo vedo subito che vaga perplesso in testa al binario 9 di Termini. E' in piedi da un'ora vergognosa, si sta scapicollando da Torino e delle prossime 24 ore 10 le passerà in viaggio. Onore al sacrificio.
Filippo Bologna ci raggiunge quando siamo appena saliti sull'Eurostar, mentre la quarta compagna di viaggio dà forfait per sopravvenuta influenza. Gli altri - gli organizzatori dello Strega - sono già in viaggio da ore, il portabagagli dell'auto pieno di libri. Onore al sacrificio II.
Sono reduce dal clima da gita scolastica dello Scerbanenco e quella di questo vagone non si può esattamente definire un'atmosfera goliardica. Ho letto durante l'estate lo straordinario libro di Giorgio e mi sono già costruito la mia personale, netta percezione della differenza che c'è tra di noi. Ogni parola del suo libro è pesata con un bilancino che io non saprei neppure dove andare a comprare, anzi che probabilmente neppure si vende. Un bilancino che si è fatto da solo, lavorando anni per aggiungere un pezzo dopo l'altro. Anche Filippo se n'è fatto uno tutto suo, con un lavoro che lui stesso definisce da tombarolo. Non parlano mai di premi, di numeri di edizioni, di copie vendute, delle capacità di questo o di quell'agente. Parlano di Lingua. Di una Lingua che hanno esplorato e che conoscono in un modo talmente profondo da averla assunta a metro di giudizio. Tanto da averle sottomesso la storia.
Ecco, è questa la differenza: loro mettono la storia al servizio della Lingua, io metto la lingua al servizio della storia. Quando parlando di un libro - e ne snocciolano almeno una ventina che non solo non ho letto, ma di cui non ho mai neppure sentito parlare - non giudicano solo la storia. Anzi a volte non la valutano affatto. Parlano della Lingua. Di ciò che le parole hanno evocato non attraverso quella sensazione che spesso si prova e che si cerca di esplicitare dicendo "bello, come vedere un film", ma attraverso ciò che la Lingua, attraverso le parole, ha costruito. Le parole sono il blocco di marmo e lo scalpello è la conoscenza che di quelle si ha. L'opera finale è ciò che la Lingua ha impresso al blocco di marmo e che può essere armonico e meraviglioso o assurdo e stupefacente o chissà cos'altro.
Ma che sento distante da quello che faccio io.
Come andare in giro per librerie dell'usato. Filippo e Giorgio tracciano sotto ai miei occhi una mappa nazionale delle migliori librerie dell'usato dividendole addirittura per tipologie, per specializzazioni, per classi. Si entusiasmano per il ritrovamento in una bancarella di un libro che credevano perduto e irraggiungibile. E mentre io mi glorio della mia tessera della biblioteca di Campagnano che mi permette di continuare a leggere quello che più mi va senza dover affrontare l'oneroso impegno di mettere ordine nella mia strabordante libreria, Giorgio mi confessa che i libri preferisce possederli perché così può scriverci sopra.
Arriviamo a Benevento. Fa un freddo pazzesco, ma la bella città che ricordo dall'estate scorsa è ancora più affascinante. Il teatro è pieno di ragazzi: ci illudiamo che siano qui per noi e non solo per risparmiarsi il pomeriggio di studio. Lo spero per loro più che per noi perché gli interventi di Giorgio (su Fenoglio) e di Filippo (su Bianciardi) sono davvero un tesoro da raccogliere e conservare. Io ho portato il Gattopardo e mentre leggo le pagine del Principe e delle scimmiette ho la pelle d'oca.
Meno di due ore in tutto, poi l'assalto ai nostri libri esposti sul tavolo all'ingresso (omaggio del Premio) e al buffet. Un buffo signore che avrebbe fatto la felicità di Lombroso, dà periodico e indefesso assalto a un alberello di Natale ornato di cioccolatini Strega che strappa con furia dai rami e tesaurizza nelle tasche. Poi si accorge che tutti abbiamo notato le sue movenze da pesce spazzino e facendo il vago punta verso il vassoio della pizza farcita.
Altre due ore a spasso per la città, per vedere la città di luce e siamo sul treno del ritorno. Giorgio mi mostra "Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla Terra" una fantastica Graphic Novel di Chris Ware. E di nuovo si parla di libri e di scrittura. Ma mai di storie. Di nuovo mi sento lontano dal loro modo di intendere questa cosa che comunque ci unisce e ne sono affascinato. Mi stupisce questa loro capacità di scrivere a prescindere dal lettore, pensando prima di tutto alle parole e alla Lingua e solo dopo alla storia. Pur riconoscendo - e citano un paio di casi - che senza storia si può avere tutta la Lingua del mondo, ma non si va lontano.
La loro Lingua e le loro parole hanno reso questo viaggio breve. Ci salutiamo senza le formule di rito: "ci vediamo" e neppure "sentiamoci, eh...". Se accadrà, accadrà. Se sui sentieri della Lingua o su quelli delle storie, non importa.

giovedì 10 dicembre 2009

E il Premio Scerbanenco va a...

Faccio fatica a svegliarmi. Sarà perché in montagna dormo come una pietra. Ma anche al mare in realtà. Anzi, per dirla tutta dormo come una pietra in qualunque circostanza purchè non ci sia un’urgenza a fiatarmi sul collo. E questa mattina non c’è alcuna urgenza, solo un piacevole impegno: fare colazione con Maurizio De Giovanni e sua moglie Paola. Li raggiungiamo, in ritardo, nella sala da pranzo dell’hotel, dove troviamo una sorpresa: i sardi. O meglio, quello che resta della pattuglia dei sardi: Giulio Angioni e Giorgio Todde. Che, per darvi un’idea, sono due scrittori veri. Antropologo, vincitore del Premio Dessì e del Premio Mondello Angioni; oculista noirista vincitore del Berto e creatore (o meglio resuscitatore) di Efisio Marini l'altro. Entrambi con il pregio di essere esilaranti come i due vecchietti del palco del Muppet Show. Così tra una chiacchiera e l’altra, complice la giornata spettacolare che si è aperta su Courmayeur, arriviamo in ritardo al primo appuntamento vero della giornata: la tavola rotonda su Piazza Fontana. A moderarla c’è un vecchio amico, Gaetano Savatteri. Gli altri non li conosco, ma è tutta gente che mi aiuta a comprendere qualcosa di una vicenda di cui non so un bel niente e ho colpevolmente trascurato. Sullo schermo passano le immagini del dicembre 1969: io avevo due mesi e Bruno Vespa stava già in tv.
Dobbiamo andare via prima: a mezzogiorno c’è la mia presentazione al Jiardin de l’Ange. Non mi faccio molte illusioni, Courmayeur si è svuotata e a mezzogiorno qui si mangia. Ma non ho fatto i conti con l’amore per il noir che porta fin qui appassionati da ogni dove, così di gente in sala ce n’è più di quanta sperassi. Fila tutto liscio: Valerio Calzolaio è brillante e conosce a fondo il romanzo; il pubblico è attento e la mezz’ora a nostra disposizione fila via come una chiacchierata tra amici. Finita la presentazione Maurizio e Paola insieme ad Angioni e Todde hanno avuto una grande idea: approfittare della bellissima giornata per andare sul Monte Bianco. All’una e cinque siamo ai piedi della funivia, ma – siccome sono solo i terroni che non hanno voglia di lavorare – qui si fa la pausa dalle 13 alle 14, quindi ci rassegniamo a mangiare polenta e fonduta in uno chalet vicino. Dove però il proprietario è calabrese così come – ci viene rivelato – il 60 per cento della popolazione di Courmayeur. Ecco forse spiegata la pausa pranzo alle funivie.
Satolli entriamo in una cabina degli anni ‘50 (e orgogliosa di esserlo) che a tappe ci porta fino a 3.400 metri. Su di noi volteggiano i gracchi delle Alpi, l’aria è quasi immobile, il freddo è così secco che i –2 nemmeno si sentono. Intorno a noi si erge una corona così stupefacente che si può immaginare la mano di Dio mentre la intaglia.
Torniamo a Courmayeur che è quasi ora della presentazione di Donato Carrisi e di Maurizio. Abbiamo saputo che i giurati sono già in conclave, ma preferiamo non pensarci: c’è ancora troppo da divertici. Facciamo una nuova conoscenza: Roberto Ricciardi, un colonnello dei carabinieri che ha vinto il premio Tedeschi 2009 e si è conquistato la pubblicazione nel giallo Mondadori. Entra anche lui nel nostro clan sgangherato. Ci ritroviamo tutti al Jiardin de l’Ange e finalmente conosco Carrisi. E’ diverso da come lo descrivono. Potrebbe darsi più arie di una mongolfiera e invece è lì tranquillo che cerca di capire in mezzo a chi è finito. Il clan decide di abbassare la guardia e di iscriverlo ad honorem. Maurizio conduce la sua presentazione come uno skipper porterebbe una barca in porto e viene proprio voglia di conoscere il suo commissario Ricciardi. Riusciamo a trascinare Vichi e la Bucciarelli sul palco per la foto di famiglia in cui – manco a dirlo – compare anche Savatteri.
Si va a bivaccare nel grande salone dell’hotel Royal. Si chiacchiera di tutto; i crocchi si compongono e scompongono. Come per assisterci nella volata finale si sono materializzati gli editor e gli uffici stampa delle nostre case editrici.
Andiamo a cena tutti insieme. Si parla dei grandi misteri di questo Paese (è per questo che siamo qui, no?) e di cazzeggia mangiando nouvelle cousine alla valdostana. Poi, all’improvviso, sono le dieci. Nessuno di noi sembra aver saputo in anticipo chi ha vinto. Forse, memori dell’amarezza che contraddistinse le ultime battute della scorsa edizione, i giurati sono riusciti a rispettare e a far rispettare la consegna del silenzio.
Arriviamo alla cerimonia in ritardo. Poi tutto accade in fretta, molto in fretta.
Alla mia destra ho Maurizio; alla mia sinistra la Bucciarelli.
E’ Cecilia Scerbanenco a leggere il verdetto.
Marco Vichi, con Morte a Firenze.
Cavolo, c’avevo sperato.
Vichi si volta verso la Bucciarelli per esprimerle il suo sgomento.
Elisabetta sembra prenderla bene.
Io batto le mani.
Prima ancora di aver il tempo di metabolizzare, cominciano a scorrere le immagini del film Zombieland. Beh, è un po’ troppo e non solo per me.
Ci rifugiamo in un posto molto fighetto, il bar Roma, dove ci ritroviamo tutti, ma proprio tutti. Finalisti (manca la Bucciarelli che è già partita per Milano), mogli, compagne, giurati (alcuni), giornalisti e… Savatteri. Ordiniamo la grolla dell’amicizia, una specie di bomba alcolica che sa di napalm (sì, l’ho assaggiato e allora?) alla quale appozziamo tutti insieme. Con ammirabile maestria Savatteri guida il cazzeggio. E’ una serata tra amici; non ci sono né vincitori, né vinti. Da domani saremo di nuovo tutti sulla tastiera del pc a buttar giù il prossimo romanzo, magari pensando all’edizione dello Scerbanenco che dovrà vincere.
Con colpo di classe finale Savatteri convince/costringe Vichi a pagare il conto. Dal suo premio vanno scalati 122 euro di alcolici ad alta gradazione.

mercoledì 9 dicembre 2009

Couurmayeur, i sardi e il nero

Primo giorno di Noirfest. Stessa atmosfera dell'anno scorso, ma con meno neve. Per fortuna: posso finalmente vedere che faccia ha Courmayeur. E qualche sorpresa: prima fra tutte Maurizio De Giovanni uno che - come ha potuto sperimentare chi ha seguito il forum sul sito del Noirfest e qualche botta e risposta su l'Angolo Nero - non le manda a dire. Ci siamo presi subito con Maurizio e lo stesso hanno fatto le nostre mogli: non siamo dei grandi frequentatori dell'ambiente e condividere un certo spaesamento fa sentire meno la sindrome del pesce fuor d'acqua. Il sole ci ha accolto nello struscio da Immacolata: bella gente, belle macchine, bei soldi. Mancano solo le Mini che l'anno scorso affollavano ogni angolo di Courmayeur, ma mi sembra di aver capito che mostrando teutonico coraggio lo sponsor dell'anno scorso ha suonato la ritirata e ha lasciato tutto nelle mani delle tanto bistrattate istituzioni che invece non si sono tirate indietro e anche quest'anno hanno fatto marciare il festival. Rintronati dalla sveglia alle sei, dall'alta quota e da una micidiale crepe con speck e brie abbiamo avuto solo il tempo di riprenderci un po' e poi via al primo appuntamento: la tavola rotonda Meglio sardi che noir. Un'ora filata liscia come l'olio, a parlare di sarditudine, di noiritudine, delle maledizioni insulari e di antropologia con Marcello Fois che coordinava una nutrita e interessante pattuglia di sardi scelti ad hoc. Poi le presentazioni dei primi due finalisti dello Scerbanenco: Elisabetta Bucciarelli e Marco Vichi.
Fuori fa -7 quando ci rintaniamo in un bar a sorseggiare irish coffee e cioccolta calda. Maurizio racconta la sua straordinaria avventura editoriale e si lascia ascoltare come sa fare un grande affabulatore. A cena la sindrome del pesce fuor d'acqua torna a farsi sentire fino a quando non arriva la pattuglia di sardi che qui non ha niente da vincere da perdere. Con loro si parla di tutto - proprio tutto - dai libri di Alajmo al silenzio di Piazzese, da Distretto di Polizia ai dieci libri italiani più venduti in Italia negli ultimi 100 anni (per la cronaca il primo è Il Gattopardo e il decimo Va' dove ti porta il cuore). Si mangia bene e si chiacchiera ancora meglio. Poi tutti (o quasi) a vedere Jennifer's body, scritto da Diablo Cody (Juno) che si fa vedere sul palco più easy di come uno se la immaginerebbe. Vado a letto con la conferma che l'horror non è proprio il mio genere.

lunedì 7 dicembre 2009

Courmayeur Express

Bagagli essenziali, macchina fotografica a posto, biglietti a portata di mano. Domattina si parte per Courmayeur. L'impegno - che spero di mantenere - è di darvi su queste 'pagine' un resoconto dettagliato di ciò che accadrà. E ne accadranno delle belle, ne sono convinto, visto soprattutto chi saranno i miei compagni di avventura. L'appuntamento, per quanto mi riguarda, è mercoledì 9 alle 12 al Jardin de l'Ange, dove Valerio Calzolaio presenterà In terra consacrata per la finale del Premio Scerbanenco. Chi sarà da quelle parti si faccia vedere!

venerdì 4 dicembre 2009

Auguranti e augurati

Ho ricevuto questa cosa che, prima che si trasformi in una insopportabile catena di Sant'Antonio, ho trovato esilarante, oltre che assolutamente calzante rispetto ai tempi che viviamo:

Io sottoscritto (d'ora in avanti "l'Augurante") chiedo al mio interlocutore
(d'ora in avanti "l'Augurato") di accettare senz'alcun obbligo, implicito o
esplicito, i voti più sinceri dell'Augurante (d'ora in avanti "gli Auguri")
affinché l'Augurato possa trascorrere nel migliore dei modi (ove nella frase
"migliore dei modi" si sottintende da parte dell'Augurante e si presuppone
da parte dell'Augurato un atteggiamento che tenga conto delle problematiche
di carattere sociale, ecologico e psicologico, che non sia causa di tensione
e/o competizione, né comporti o favorisca alcun tipo di assuefazione o di
discriminazione, sia sessista, sia di diverso carattere) per la festività
coincidente al Solstizio d'Inverno convenzionalmente nota come "Natale", ma
che può essere chiamata e celebrata dall'Augurato secondo le sue tradizioni
religiose e/o laiche, premesso il debito rispetto nei confronti delle
tradizioni religiose e/o laiche di persone di qualunque razza, credo o sesso
diverse dall'Augurato, ivi comprese coloro che non praticano alcuna
tradizione religiosa e/o laica.
Qualsiasi riferimento a qualunque divinità, figura mitologica, personaggio
tradizionale, reale o leggendario, vivo o morto che sia; a simboli (ove sono
compresi tra l'altro - ma non limitativamente - canti e rappresentazioni
artistiche, letterarie e sceniche) religiosi, mitologici o della tradizione
che possa essere ravvisato direttamente o indirettamente nei presenti Auguri
non implica da parte dell'Augurante alcun sostegno nei confronti della
figura o del simbolo in questione.

L'Augurante chiede inoltre all'Augurato di accettare gli auguri per un
felice (ove l'aggettivo "felice" viene definito tra l'altro - ma non
limitatamente - come "gratificante dal punto di vista personale,
sentimentale e finanziario e privo di complicazioni di carattere medico,
dirette o indirette") anno 2010.
L'Augurante sottolinea che la datazione "2010" è qui considerata come
convenzionale, così com'è considerata convenzionale la data del 1° Gennaio
come inizio dell'anno, e dichiara il suo assoluto rispetto per altri tipi di
datazione legati alle differenti culture religiose e/o laiche di cui
l'Augurante riconosce il prezioso contributo allo sviluppo dell'attuale
società multietnica.

Augurante e Augurato convengono inoltre su quanto segue:

- Gli Auguri valgono a decorrere dalla data del presente accordo al 31
Dicembre 2010, dopodiché dovranno essere esplicitamente rinnovati da parte
dell'Augurante.
- Gli Auguri non implicano alcuna garanzia che i voti di "felicità" espressi
dall'Augurante trovino un effettivo riscontro nella realtà dell'Augurato, il
quale non potrà attribuire all'Augurante alcuna responsabilità civile e/o
penale e/o morale per la loro mancata attuazione.
- Gli Auguri sono trasferibili a terzi purché il testo originale non subisca
modifiche o alterazioni. La libera diffusione del testo non implica tuttavia
il pubblico dominio del testo stesso, i cui diritti appartengono in ogni
caso al detentore del copyright.
- L'Augurante declina ogni responsabilità derivata dall'utilizzo degli
Auguri al di fuori dai limiti prescritti; in particolare, l'Augurante
declina ogni responsabilità per eventuali danni fisici o morali all'Augurato
e/o a persone e/o sistemi informatici a lui collegati derivati dall'invio
degli Auguri mediante E-Mail o qualunque altro metodo di trasmissione,
elettronico o di diverso genere, attualmente in uso, in fase di
sperimentazione o non ancora inventato.

giovedì 3 dicembre 2009

E' tornato il Dag

Sono stato alla presentazione del Dag. Ho dovuto fare qualche salto mortale per farcela, ma ne è valsa la pena. Come l'anno scorso, ma forse più dell'anno scorso, quando la presentazione della prima edizione di questo Dizionario Atipico del Giallo era sembrata una specie di scherzo, un tentativo di vedere come va. Quest'anno invece Maurizio Testa e Claudia Catalli (assente giustificata Alessandra Buccheri piegata dall'influenza) si sono resi conto di aver creato un prodotto che funziona. Non ne faccio una questione di numeri di copie: un dizionario (a meno che non sia lo Zingarelli) non entra nella top ten della classifica Nielsen, ma il Dag è stata e continua a essere (e spero che continuerà ad essere per molti anni a venire) una bella idea. In sostanza - per chi non lo ricordasse o non lo sapesse - è una rassegna (critica più che compilativa) degli eventi clou nell'ambito noir-giallo-thriller dell'anno che si avvia a conclusione. E non si dica che il mio entusiasmo per il Dag è dettato dal fatto che dedica ben tre pagine a In Terra Consacrata, perché posso vantarmi di essere stato tra i suoi primi sostenitori e in tempi non sospetti. Ma nel'austera Casa del Cinema a Villa Borghese questa'anno si respirava un'atmosfera diversa, più seria ma non per questo pallosa; meno festaiola e cazzara. Il Dag è stato riconosciuto come uno strumento di lavoro, mentre nella prima intenzione dei suoi creatori c'era quella di partorire un volumone da tenere sul comodino e consultare a tempo per fare un tuffo nel mondo dei criminali e dei disadattati; del vizio e del torbido prima di dare la buonanotte al mondo reale. Sulle spalle del trio Testa-Buccheri-Catalli si è invece depositato un rispettabile fardello: ci si aspetta che mantengano questo impegno anche l'anno prossimo (dall'editore Cooper lo si aspetta di default) e sempre con il rigore, ironico e istrionico, che ha contraddistinto i primi due volumi.
Un paio di note di colore:
1) Maurizio è stato così gentile da chiamarmi al tavolo per dire un paio di cose e gli chiedo perdono se ho preso più tempo del dovuto.
2) Ho finalmente conosciuto Enzo BodyCold e sua moglie con cui ho parlato di un sacco di di cose: dal Giappone alla graphic novel; dalle cose che accadono in una seduta di laurea a una collaborazione da inventare sull'asse New York-Roma. Sono simpaticissimi e mi dispiace non poter contare sulla loro compagnia a Courmayeur, anche se Enzo mi ha confessato di non aver votato per me allo Scerbanenco. Considero impegno preso l'idea di andarci a fare una birra insieme una di queste sere.

mercoledì 2 dicembre 2009

In Terra Consacrata è in finale!

E' fatta: In Terra Consacrata è in finale al Premio Scerbanenco. Certo non sarà facile: dovrò vedermela con Donato Carrisi, Marco Vichi, Elisabetta Bucciarelli e Maurizio De Giovanni, ma vorrei che la due giorni di Courmayer - 8 e 9 dicembre - fosse innanzitutto un'occasione per fare nuove conoscenze e divertirsi. Non c'è alcun buonismo in questo: parto consapevole di avere le carte in regola per vincere e so già che se non dovessi farcela ci resterei malissimo. Mi piacerebbe però che l'atmosfera fosse quella dell'anno scorso: una sconclusionata comitiva di scrittori che si ritrova quasi per caso in mezzo a due metri di neve a parlare di letture e scritture, di fesserie e di cose serie, magari senza darsi troppe arie. Sarebbe bello, no?

venerdì 27 novembre 2009

La recensione di Valerio Calzolaio

Ed ecco la recensione di Valerio Calzolaio per Il Salvagente:

Roma. Giugno 1983. Giugno 1993. Estate 2008. Sparisce la quindicenne Antonella Iacoangeli. Venticinque anni dopo una donna dice di sapere come, perchè e che fine ha fatto. Si tratta della bellissima drogata ex prostituta d’alto bordo Anna Marzani, parla anche del bimbo dei Salemi ucciso oltre quindici anni fa, vien fuori che è una strana storia di connivenze fra una nota banda di delinquenza e riciclaggio guidata da Marino Cruciani ed esponenti del Vaticano, in particolare monsignor Duarte. L’anziano procuratore in pensione, autore dell’indagine irrisolta e poi di un libro in materia, viene tirato in ballo per capirci qualcosa. E…. Alt! Avete letto le agenzie e i giornali della recente ultima quindicina di novembre? Cliccate il comando rinomina, stesse date e vicende, i veri nomi in ordine: Emanuela Orlandi, Sabrina Minardi, Nicitra, banda della Magliana, Renatino Enrico De Pedis, Marcinkus, ecc. (da Calvi a Sindona). Bella ulteriore prova per il dotato quarantenne palermitano giornalista “estero” dell’AGI Ugo Barbàra (“In terra consacrata”, Piemme 2009, pag. 459 euro 18,50), in terza varia, molto documentato (anche grazie alla cronista giudiziaria Rosa Polito) e anche sufficientemente creativo ispirato (se perdeva ancor più la rotta era anche meglio). Pagine interessanti sull’anticomunismo della Chiesa. Il titolo si riferisce al luogo della “sepoltura”. Segnalo che la vita è sottile equilibrio di diffidenze. Buona musica e pure molte messe cantate, violentemente. Troppi panini per essere nella capitale.

mercoledì 18 novembre 2009

Ecco le istruzioni per votare

Ecco le istruzioni per votare per “In terra consacrata” al Premio Scerbanenco
Tutto quello che serve è:
- un collegamento a internet
- una casella di posta elettronica
- un documento di identità a portata di mano
La prima cosa da fare è andare all’indirizzo http://www.noirfest.com/iscriviti.asp. Comparirà la schermata qui sotto che dovete compilare in ogni campo. Potete anche ignorare la parte “scegli il tuo avatar” e premere direttamente il pulsante “iscriviti”
Fatto ciò andate alla vostra casella e-mail: troverete un messaggio proveniente dall’indirizzo webmaster@noirfest.com. Apritelo e ciccate sul link che vi trovate all’interno: è la richiesta che il sistema fa per verificare che abbiate realmente chiesto l’iscrizione alla votazione. Se il link non funzionasse, copiatelo e incollatelo sulla barra degli indirizzi del vostro browser. A questo punto tornate sulla vostra casella di posta: vi sarà arrivato un nuovo messaggio in cui vi viene data la password per votare. Andate al sito http://www.noirfest.com/login.asp e inserite il vostro indirizzo e-mail (che funge da username) e la password. Entrerete così nella lista dei candidati e ‘In terra consacrata’ è il secondo titolo. Una volta che avrete votato potrete (se ne avete voglia) anche partecipare al forum all’indirizzo http://www.noirfest.com/forum.asp per convincere gli altri elettori che ‘In terra consacrata’ è davvero il romanzo che merita di vincere.
Come vedete è un meccanismo piuttosto farraginoso, ma dovrebbe mettere al sicuro dai clamorosi brogli dell’anno scorso. Sembra una procedura lunga, ma vi assicuro che se ne esce in meno di cinque minuti. Grazie a tutti per la pazienza.

giovedì 12 novembre 2009

Andiamoci a prendere il Premio Scerbanenco!

L'anno scorso avete portato 'Il Corruttore' in finale al Premio Scerbanenco. Quest'anno vi chiedo di riprovarci: facciamo vincere 'In terra consacrata'. Per evitare i brogli, il meccanismo di voto è un po' più complesso della scorsa edizione, ma la partecipazione al voto è molto più divertente e si può interagire con gli altri 'elettori' per convincerli che 'In terra consacrata' è il candidato migliore. Tutto quello che serve sono un pc, una casella e-mail e un documento di identità a portata di mano. E' un po' come una sottoscrizione per una giusta causa. E questa - diamine! - è una giusta causa.
Le istruzioni sono qui: http://www.noirfest.com/iscriviti.asp ma fate in fretta: c'è tempo solo fino al 28 novembre.

mercoledì 4 novembre 2009

Dalle mie fredde mani

Con cura sollevai un lembo della decalcomania. Tirai un po' di più e il Babbo Natale sbrilluccicoso venne via integro, lasciando intorno a noi solo quel suono di inevitabilità che fanno le cose quando vengono strappate dal loro posto. Poi toccò alle renne e alle stelline. Vennero via anche loro senza troppe difficoltà e senza lacerarsi. Le adagiai con delicatezza sul foglio di carta oleata che mio figlio mi porgeva. Lui guardò le figure che ondulavano sulle sue dita, poi alzò gli occhi su di me, con la stessa espressione che già avevo visto altre volte.
"A scuola hanno detto che l'albero di Natale si può tenere" disse.
"Davvero?". Pulivo con uno straccio i residui lasciati sul vetro.
"Dicono che non è un simbolo cristiano. E' una cosa pagana, venuta dal nord"
"E chi lo dice?"
"Lo dicono. Dicono che basta non mettere gli angioletti e la stella sulla cima. Si può mettere un puntale, così non si offende nessuno"
"Anche Babbo Natale è un simbolo pagano, però dobbiamo toglierlo"
"Ma perché?" insisté mio figlio.
"Perché è il simbolo di una festa e se noi festeggiamo qualcosa che gli altri non festeggiano possono offendersi"
"Ma io non ho mai sentito qualcuno che si è offeso per una festa! Samir dice che non gliene importa niente. Che almeno a Natale prende i regali". Conoscevo quel tono: stava per mettersi a piangere.
"Questo lo so, ma c'è qualcuno che ha deciso per noi"
"E chi? Chi ha deciso che non dobbiamo avere le figurine alle finestre e l'albero in giardino?"
Mi chinai sui talloni fino ad essere alla sua altezza.
"Ricordi quando fecero togliere il crocifisso dall'aula?" gli domandai.
Lui annuì.
"Sono state le stesse persone" continuai.
"Ma non sarebbe molto più facile se lo festeggiassero anche loro il Natale?"
"Il problema è proprio questo: loro lo festeggiano già il Natale, ma credono che sia offensivo per chi non lo festeggia e quindi hanno deciso per tutti noi"
"Ma è una stupidaggine"
"E ricordi quando volevo portarti a sentire i canti gregoriani, ma li avevano tolti dal cartellone? O quando volevo portarti a vedere la mostra di pittura rinascimentale, ma avevano tolto tutti i quadri con la Madonna e i Santi?"
"Sì che lo ricordo". Notai che si stava arrabbiando.
"E' la stessa cosa. E' una stupidaggine, ma non sempre le persone alle quali chiediamo di prendere decisioni al posto nostro fanno la scelta giusta".
"Allora poi magari ci ripensano!". Disse mio figlio. Il suo sguardo si era illuminato.
"Può darsi" mentii.
Guardò verso l'angolo del salone in cui aveva allestito il Presepe.
"Quello però lo possiamo tenere: è in casa nostra e nessuno di quelli che noi invitiamo si è mai offeso"
Guardai le statuine di gesso, il muschio e la corteccia di sughero che formava la collina. La stella cometa spandeva una debole luce intorno a sé.
"Se qualcuno vorrà toglierlo" gli dissi, parlando piano "dovrà strapparlo dalle mie fredde mani"

giovedì 29 ottobre 2009

"In Terra Consacrata" ha vinto il Premio Alziator!

E' stata una bella serata. Davvero una bella serata. E non lo dico solo perché ne sono uscito vincitore, ma perché me la sono goduta fino in fondo, fino alle quattro e mezzo del mattino, fatte a sorseggiare rum su una terrazza con una splendida vista su Cagliari.
Tutto, poi, ha avuto un che di miracoloso. Arrivare in tempo alla cerimonia era praticamente impossibile. Il mio aereo da Pechino partiva alle 13,30 e alle 21,30 dovevo a ogni costo essere a Cagliari. Perché fosse possibile dovevano incrociarsi una serie di congiunzioni astrali sulle quali, per via del ritardo cronico dei voli Meridiana per la Sardegna, era impossibile fare affidamento. E invece è filato tutto liscio.

Alle dieci e mezzo del mattino, ricevuto dall'ambasciatore italiano a Pechino, sbircio nervoso l'orologio. Sul traffico di una metropoli non si può fare affidamento e su quello di Pechino men che meno: basta una chiacchierata più lunga del previsto a farmi perdere l'aereo. E invece arrivo nel monumentale Terminal 3 perfettamente in orario. L'Airbus nuovo di zecca dell'Air China parte in perfetto orario e pazienza se accumula mezz'ora di ritardo durante il volo. Pazienza anche se dopo essersi scolato 200 cl di grappa cinese a 43 gradi a digiuno il mio vicino di posto si accascia sulla mia spalla ronfando come un mantice e pazienza se sulla poltrona di là dal corridoio un altro continua a scatarrare chinese-style nella bustina per il mal d'aereo. E' un volo più che tollerabile, anche grazie alla possente batteria del mio iPod che mi tiene compagnia per 11 ore e mezzo.
Arrivo a Fiumicino, corsa precipitosa agli imbarchi Meridiana e - sorpresa! - volo in partenza in orario. A Cagliari trovo l'autista pronto e veloce e alle 21,30 in punto sono al Teatro Lirico, dove la cerimonia è iniziata da una manciata di minuti.
E qui ho la prima sensazione positiva: tutto troppo perfetto per essere casuale.
La serata procede, lunga, ma dinamica e senza intoppi. Vengono premiati i finalisti della sezione inedito, quelli per la saggistica e gli autori mediterranei. In quest'ultima sezione c'è un piccolo giallo: è presente solo Lizzie Doron e qualcuno bisbiglia che gli altri due finalisti - due egiziani - hanno dato forfait perchè il loro sindacato degli scrittori non gli avrebbe perdonato di essere saliti sul palcoscenico al fianco di un'israeliana. Poco dopo Salvatore Niffoi farà piazza pulita delle chiacchiere: dietro l'assenza dei due non c'è niente di politico. Ma Lizzie non ci crede.
Arriva un lungo, bellissimo momento musicale dedicato a Fabrizio De Andrè. Sul palcoscenico si danno il cambio i Tazenda, Nada, Viola Valentino e Teresa De Sio che reinterpretano brani di Fabris. Dalle poltrone accanto a me gli altri due finalisti nella sezione narrativa non trovano pace: Gianfranco Manfredi entra ed esce in continuazione dalla sala e Silvia Ronchey sbuffa vapore acqueo da una lunga sigaretta elettronica.
E qui ho una prima sensazione negativa: magari loro sanno già chi è il vincitore.
Sul palcoscenico Michele Mirabella inanella una gaffe dietro l'altra ma le trasforma tutte in teatro e Nadia Bengala non azzecca un accento, ma le sono solidale: neppure io ho molta confidenza con la lingua sarda e avrei fatto i suoi stessi errori.
La platea ammutolisce quando sul palcoscenico sale Lila Azam Zanganeh, scrittrice e giornalista iraniana, docente di Harvard quando aveva appena 22 anni, fluente in cinque lingue. e bella come il sole. Sembra che lei e Mahmoud Ahmadinejad non vengano solo da due Paesi diversi, ma da due costellazioni lontane miliardi di anni luce.
E' mezzanotte passata quando Anna Galiena legge il primo capitolo di In Terra Consacrata. Ho la pelle d'oca, non solo perché dopo aver sentito leggere le stesse pagine a lei e a Laura Morante mi sembra di non poter desiderare un destino migliore per le mie parole, ma perché ci siamo quasi...
Mirabella riprende il microfono.
And the winner is...
Cavolo, non ci posso credere. Salto sulla sedia. Per me sono le sette del mattino, non dormo da 24 ore ma sembro Nino Castelnuovo mentre saltello come un grillo sugli scalini del palcoscenico. I riflettori mi abbagliano, Dori Ghezzi mi fa i complimenti e mi stringe le mani, mi fanno domande e do risposte (sensate) che non ricordo.
Strette di mano, sorrisi, complimenti, adrenalina al massimo. Bellissima sensazione.
Andiamo a cena al ristorante del T-hotel; sono al tavolo con la Ronchey, con Manfredi, con la Zangane e con un pianista che non conosco, ma che ha fatto una splendida interpretazione di un paio di canzoni di De Andrè. Solo dopo un paio di giorni scoprirò che Cesare Picco è un genio assoluto e che il suo ultimo disco è uno dei più belli che abbia mai sentito. A cena sono solo capace di chiedergli se ha già inciso, ignorando il fatto che sia all'undicesimo Lp. Bella figura!
Con Manfredi parliamo di Cina e un po' di montagna. Poi si alza e scompare. Scompare davvero, si smaterializza. Se ne va in camera senza neppure salutare: non so se sperare che sia per maleducazione o per rosiconeria. Dopo un po' ci abbandona anche la Ronchey. Ma lei, almeno, saluta.
Scherzo a lungo con Lizzie Doron. E' bello conoscere finalmente un'israeliana laica, disincantata e ironica come solo gli ebrei sanno essere.
Alle due siamo nell'aria tiepida della notte cagliaritana, tutti troppo eccitati per andare a dormire. Con Niffoi, Luigi Puddu (superbo chitarrista) e il marito della Bengala (una vera scoperta! andiamo a bere rum sulla terrazza di Alfredo Franchini, autore di un bel libro su De Andrè. Si parla di musica, si fa musica. Si parla di letteratura, di quelli che se la tirano e di quelli come noi che sembra che si conoscano da una vita.
Alle quattro e mezzo è ora di andare. Ci abbracciamo promettendoci di risentirci presto e di rivederci altrettanto presto. Siamo una ghenga di amici di vecchia data. Posso andare a dormire con un sorriso e la testa che mi gira.

mercoledì 28 ottobre 2009

Incoerenze cinesi

Non so come gli sia venuto in mente, ma mentre l'orario del mio volo si avvicina in modo inquietante e siamo ancora imbottigliati nel traffico di Pechino, l'autista decide di lanciarsi in un pistolotto sull'influenza A. La sua teoria, in sintesi, è che la gloriosa Repubblica Popolare cinese ha la "potenza" per affrontare il virus, mentre noi europei e soprattutto gli americani siamo spacciati. Non so cosa rispondere, ma uno sguardo eloquente della mia interprete mi risparmia questa fatica. Per fortuna un attimo dopo l'autista si lancia in un soliloquio su quanto sono fortunati i dipendenti di China Radio che anche se non guadagnano molto possono guidare auto (europee) come Audi e Mercedes. Incoerenze cinesi. Incrociamo un'Audi TT guidata da una donna e scatta un altro sproloquio. "Deve avere un sacco di soldi" dico. "Più probabile che abbia un uomo con un sacco di soldi" mi corregge la mia interprete. Lungo la strada si profila il grattacielo della Cctv distrutto da un incendio prima che vi fosse trasferita parte della mastodontica tv cinese. "Un regalo al popolo" lo chiamano i pechinesi con insolita ironia riferendosi ai miliardi di yuan che sono andati in fumo in questa carcassa annerita e malamente piegata su se stessa.

lunedì 26 ottobre 2009

Matrimonio alla cinese

I motorini elettrici passano sibilando accanto a noi. C'è un momento, solitario e fugace, di silenzio, poi il rumore della metropoli torna a deflagrare nelle nostre orecchie. Pechino è più rumorosa di Shanghai. Meno caotica, forse, ma è qui che, più che altrove, si ha la sensazione che una città così enorme possa fondarsi solo sul principio della confusione organizzata. Su una innata diligenza verso certe regole – non tutte, solo alcune, ma ben precise – che fa sì che tutto quello che c'è di sregolato segua la traccia segnata. E' in questa confusione che il cellulare della mia interprete comincia a squillare. Non accade spesso: come i poco-più-che-ventenni italiani preferisce gli sms alle costose telefonate, ma questa volta deve essere qualcosa di importante perché lei, solitamente così placida, quasi urla nel microfono. Di gioia, intuisco. La telefonata è breve, ma concitata. Alla fine, senza bisogno che sia io a chiederle cosa è successo, è lei a parlarmene e anche questo è abbastanza fuori dall'ordinario per una cinese. "Una mia amica si è sposata" mi dice. "La mia migliore amica" precisa. Non so cosa dire: sembra che lo abbia appreso solo ora, eppure non è delusa, né arrabbiata. E' solo stupita. Se il mio migliore amico si sposasse e me lo facesse sapere a cose fatte ci resterei un po' male. Anzi, probabilmente cancellerei il suo nome dalla rubrica. E invece lei è solo meravigliata. "Ma non lo sapevi?" azzardo. "No" risponde. "Bella amica" penso. Ma poi è lei ad accorgersi che sono interdetto e mi dà una spiegazione che aumenta il mio sgomento: "Lo hanno deciso oggi" dice. Guardo l'orologio: sono le tre del pomeriggio. "Oggi quando?". "Stamattina. Mi ha telefonato per dirmelo, ma eravamo in aereo". Questa volta non so proprio cosa dire e ancora una volta lei se ne accorge. "Capita" mi spiega, "si chiamano matrimoni-fulmine. Non c'è una vera e propria cerimonia: si va e si registra il matrimonio al municipio". Vorrei chiederle se, come i fulmini, questi matrimoni durano il tempo che serve a rischiarare una notte buia. Ma lei sta già pensando al regalo che dovrà farle e non voglio essere io a rubare l'espressione felice che ha sul viso.

I Simpson a Shanghai

Ieri sera abbiamo rischiato l'incidente diplomatico. Ci stavamo godendo la serata sul lungofiume di Shanghai: io, Peter e il Colonnello insieme a due delle nostre interpreti cinesi, quando è saltata fuori la questione Simpson. Nessuna delle due conosceva Springfield o il pub di Bo. "Quel cartone nimato che parla di persone gialle…" semplifico parlando in inglese per farmi capire da tutti e sperando di evocare alla loro memoria la carnagione di Homer, Bart, Marge e Lisa. "Persone gialle… come noi?" chiede Chan. Non so come ne siamo usciti, ma c'è voluto un po' di tempo.

domenica 25 ottobre 2009

La Moratti ha un problema

Non vorrei essere il sindaco di Milano. E a pensarci bene neppure il presidente della provincia o della Regione Lombardia.

Perché dopo aver visitato i cantieri dell'Expo di Shanghai non vorrei essere al posto di chi si troverà a dover competere con quello che questa gente sta mettendo in piedi. E visto il ritmo da bradipo sotto narcotici con cui procedono i preparativi italiani c'è da temere che nel 2015 il risultato sarà una baracconata. Con l'aggravante che questa volta la posta in gioco è molto alta. Nel 2015 sarà ancora ben chiaro il ricordo di Shanghai e se l'Italia vuole dimostrare non solo alla Cina, ma al mondo intero che la forza lavoro a basso costo è una cosa, ma lo stile è tutta un'altra questione, l'Expo di Milano potrebbe essere l'ultima occasione.

sabato 24 ottobre 2009

Scrivere al buio

E' quello che sto facendo: scrivere al buio. Da Shanghai non ho accesso a Blogger, né a Facebook, quindi devo adattarmi a provare questo sistema, rudimentale, ma spero efficace. La città è un'esperienza straordinaria. Mi sarebbe piaciuto allegare qualche foto, ma in queste condizioni è davvero impossibile. Ed è un peccato, perché Shanghai, come Pechino per le Olimpiadi, non si e' soltanto rifatta il trucco per l'Expo 2010: si sta rivoltando come un calzino per presentarsi ancora più moderna e fantascientifica. Libera dai legami di cui in qualche modo soffre la capitale, Shanghai può espandersi in qualunque direzione: in verticale – e l'ha fatto un anno fa con l'apertura del Financial Centre, un enorme apribottiglie che svetta 492 metri sopra la città – e in orizzontale, con un'espansione che segue le bizzarre direttrici disegnate dalle tangenziali.
Se un tempo Shanghai era la città del Bun e dei canali, oggi è la città dei cavalcavia. Corrono dappertutto, in ogni direzione, incrociandosi e intersecandosi e incasinando la vita di milioni di neopatentati che attraversano improvvisamente tutte e cinque le corsie perché si sono accorti
all'ultimo istante che la loro uscita è proprio quella che stanno superando. Sorgono a decine di metri di altezza, si allungano puntando dritto verso un palazzo che tanto avrà vita breve perché qui mica siamo a Napoli dove una tangenziale si ferma davanti a una catapecchia: qua se un edificio è dove non conviene che sia, tanto peggio per lui: le ruspe sono già dietro l'angolo.
Della comitiva vi ho già accennato. Se in un primo tempi mi era sembrata curiosa, ora è addirittura stupefacente. A parlarne sembra di raccontare una di quelle vecchie barzellette: "un italiano, un serbo e un afghano…". Ma la realtà è molto più complessa e merita di essere raccontata con calma…

venerdì 23 ottobre 2009

Una buffa comitiva

Sono in Cina. E' un viaggio bizzarro, organizzato da quel colosso dell'informazione che è Radio China International per premiare chi si è distinto nella promozione della cultura cinese e dello studio della lingua. Ovviamente sono qui per AgiChina24, ma la comitiva e incredibilmente eterogenea. Ci sono un politico ungherese e uno scrittore afghano; un manager francese e un giornalista malese. Per approfittare di ogni momento libero, mi sono riempito l'agenda di appuntamenti per AgiChina. Ognuno di noi è accompagnato da una giornalista di China Radio che parla la lingua.Stiamo partendo per Shanghai e il pullman che ci porta all'aeroporto sembra una specie di Nazioni Unite su ruote. Dobbiamo ancora prendere confidenza. Con questa esperienza, prima ancora che tra di noi.

mercoledì 7 ottobre 2009

Daje al trans!

L'intenzione era di dare una lezione ai due trans che ciondolavano per una strada centrale di Swansea, nel Galles. Cosi' due ventenni sbronzi, Sean Gardner e Jason Fender si sono avventati sulla coppia in hot pants rosa e calze a rete urlando insulti e menando le mani. Ignorando, pero', che le due 'vittime' erano 'cage fighters' che si erano acconciati per una festa in maschera. Così, seppure in tacchi a spillo e reggicalze, i due hanno reagito fuilmineamente all'aggressione e mollato una serie devastante di calci e pugni come prevede il loro sport: un mix di arti marziali senza alcuna regola. In un attimo Gardner e Fender s sono ritrovati per terra sotto una tempesta di colpi e solo quando i due lottatori hanno ritenuto che ne avessero avute abbastanza, Gardner e' riuscito a divincolarsi, ma nella fuga precipitosa e' andato a schiantarsi contro una cabina telefonica. Ai poliziotti che li hanno fermati hanno raccontato che prima di prendere botte dai due cage fighters erano stati menati per bene da un altro uomo in maschera: un Uomo Ragno che probabilmente andava alla stessa festa.

domenica 4 ottobre 2009

In Terra Consacrata finalista al Premio Alziator

La notizia è ancora fresca: In terra consacrata è nella terna finalista del Premio Alziator. Il 28 ottobre dovrà vedersela con Il guscio della tartaruga di Silvia Ronchey e con Gianfranco Manfredi
Riporto il lancio dell'Agi:

LIBRI: PREMIO ALZIATOR, ECCO I 12 FINALISTI
(AGI) - Cagliari, 3 ott.- Sono 12 i finalisti, tre per ciascuna delle quattro sezioni, che concorreranno al premio letterario "Francesco Alziator", promosso dal Comune di Cagliari con il contributo della Regione Sardegna, in programma il 28 ottobre al Teatro Lirico del capoluogo. La giuria, presieduta dallo scrittore Salvatore Niffoi, ha selezionato, tra le 252 opere in concorso, Ugo Barbara (giornalista dell'Agenzia Italia), Gianfranco Manfredi e Silvia Ronchey per la sezione Narrativa, Remo Bodei, Gianni Olla e Gianni Sirigu per la Saggistica, Viviana De Cecco, Stefania Mannu e Claudia Zorzi per la sezione Inediti giovani autori e Al-Asswani Ala, Doron Lizzie e Ashur Radwa per quella Speciale. Per ognuna delle sezioni Saggistica, Narrativa e Speciale e' previsto un premio per il primo classificato di 6 mila euro, mentre agli altri due finalisti andranno rispettivamente 1.000 euro, al pari del vincitore della sezione Inediti Giovani Autori. La terna dei dodici finalisti e' stata resa nota stamane in una conferenza stampa dal presidente della giuria assieme al sindaco Emilio Floris e al presidente del Comitato di gestione Maurizio Porcelli. Il Premio letterario, in questa edizione, ha registrato un incremento del 30% rispetto allo scorso anno del numero di opere presentate, oltre ad una partecipazione piu' ampia delle case editrici nazionali e regionali. Sia il Premio che il festival letterario sono stati finanziati con 120 mila euro di risorse comunali, mentre la Regione sponsorizza l'evento con uno stanziamento di 20 mila euro.

venerdì 2 ottobre 2009

Coffee Club Nespresso

Sono da qualche giorno l'orgoglioso proprietario di una macchina per il caffè Nespresso. Questo comporta il vantaggio di poter scegliere quando ne ho voglia tra una smodata quantità di miscele, gustarmi un buon caffè cremoso al punto giusto e avere in cucina al posto del vecchio casciabanco da venti chili una elegante Krups dal volume contenuto.
Ma comporta anche l'iscrizione al Nespresso Club. Già che esista un club di caffeinomani è buffo, ma va bene così: le boutique Nespresso (avete letto bene: boutique) sono dei posti accoglienti in cui, male che vada, si può gustare un buon caffè e, se si è in vena, si può fare un mutuo per non dover rinunciare a nessuna delle 19 (ma a volte sono di più, altre di meno) diverse miscele.
Quando ho comprato la mia Krups (regalo di mamma!) in via Cola di Rienzo ho fatto la coda. E questo è bizzarro, perché avevo letto di code per gli iPhone, per il cofanetto dei Beatles e per Harry Potter, ma mai per una macchina per il caffè e le sue colorate, raffinate, eleganti, costose cialde. Nei cinque minuti di attesa (tutto sommato sopportabili) ho dato una sbirciatina al mondo del quale stavo per entrare a far parte. E mi sono reso conto di una cosa: che il Nespresso è roba da fighetti. Quindi o io sono sempre stato un fighetto, o lo sono diventato o lo diventerò.
Ma mi consola il fatto di non aver ancora raggiunto l'aberrazione di spendere un patrimonio per le tazzine in vetro, il portatazzine, il portacialde, le bustine di zucchero personalizzate, i cucchiaini di design, lo strumento per il cappuccino e le bacchette brandizzate. Per adesso mi limito al caffè. Ed essendo un neofita, non ho ancora scelto la mia miscela giusta. Il Roma mi piace, ma non mi sembra abbastanza pieno; il Livanto mi gusta di più, ma mi sembra un po' leggero.
Ieri ho espresso le mie perplessità alla signorina puzza-sotto-al-naso della boutique Nespresso di piazza San Lorenzo in Lucina. Accanto alla sala in cui Franceschini parlava, una clientela identica alla sua si presentava al bancone chiedendo con matematica precisione dieci diversi tipi di miscele a botta. Una signora prima di me aveva speso 43 euro di blister, ma, per fare cifra tonda (giuro: ha detto proprio così) ne ha chiesti altri due, così ha sganciato il suo biglietto da 50 euro senza l'angoscia di portarsi dietro sette euro di resto.
Quando è venuto il mio turno, ho cercato di spiegarmi con puzza-sotto-al-naso, ma prima ancora che io avessi il tempo di aprire bocca, è scattato il meccanismo-greve. Si tratta di un automatismo che si mette in funzione ogni volta che mi trovo davanti a una situazione inadeguata. Mi spiego: se sono in un ricevimento in un'ambasciata, mi comporto da persona civile, andando ben oltre la mia scala di civiltà abituale perché questo impone l'etichetta. E se ti occupi di diplomazia e politica estera, devi stare al gioco. Ma se entro in un posto che vende caffè ma non è una torrefazione, bensì una boutique e la tipa dietro il bancone mi guarda come se avesse già sgamato che non ho intenzione di spendere più di 14 euro - pari a modesti 40 caffè - scatta il meccanismo-greve e non sono più in grado di esprimermi come l'etichetta del luogo converrebbe.
"E' che il Roma mi sembra mosciarello" dico dopo un po' che lei ha parlato di note acidule, rotodità sul palato e retrogusto fruttato o legnoso.
"Mosciarello?" ripete puzza-sotto-al-naso storcendo - per l'appunto - il naso.
"Sì... lento, inconsistente"
"Temo, signore, che lei stia confondendo il sapore con la consistenza"
"Può essere, ma io vorrei un caffè che si sente in bocca e mi dia anche una bella sveglia"
Altra smorfia di naso.
"Se cerca una nota di sottobosco autunnale..."
"No, io cerco un caffè. Buono, forte. E poi magari uno più leggero da prendere al pomeriggio tardi"
"Le faccio assaggiare alcune delle miscele che potrebbero incontrare i suoi gusti"
"E' che ho appena pranzato e il caffè l'ho già preso. Se ne bevo altri due mi viene la tachicardia"
Ennesima stortura di naso.
"Allora forse è meglio che venga un'altra volta, prima di aver preso il caffè".
Allora forse è meglio che... "Va bene, mi dia due blister di Arpeggio, uno di Livanto e uno di... cos'è questa capsula blu?"
"Una speciale miscela indiana che ha un retrogusto di..."
"Va bene, mi dia anche quella". E sbrighiamoci che devo andare a lavorare.
Nel frattempo un tizio accanto a me si è portato via una cassa di blister e ha sganciato 95 euro.
Esco con la mia bustina fighetta Nespresso e attraverso una folla eterogenea che aspetta che Franceschini parli o che smetta di parlare. E sto già pensando a quale miscela proverò per prima... forse quella indiana con retrogusto del Gange.
Ma puzza-sotto-al-naso non mi ha guastato l'umore: sono pur sempre un orgoglioso proprietario di una macchina Nespresso. Proprio come George Clooney.

giovedì 1 ottobre 2009

Un italiano, una brasiliana e una greca arrivano all'Onu...

La fila è sempre quella sbagliata. Alle poste come in banca, al supermercato come al benzinaio. Vale anche per le Nazioni Unite. Perché il grande, elegante e - per l'epoca - ultramoderno Palazzo di vetro uno potrebbe ancora immaginarselo come il il regno dell'utopia, dove tutto ciò che nel mondo non va invece funziona benissimo, non si fanno le file e ognuno, pur parlando la propria lingua, capisce cosa dice l'altro.
Potremmo ancora illuderci che sia così se presidenti su presidenti, dittatori dopo dittatori, non ci avessero spiegato mille volte che l'Onu è il regno dello spreco, dell'inefficienza, delle tattiche dilatorie. Ma basta molto meno che sessant'anni di conflitto mediorientale per far vacillare la fiducia nelle Nazioni Unite: è sufficiente far la fila per un'ora davanti al numero 108 di First Avenue per poi scoprire che gli accrediti per la stampa in realtà li consegnano al tendone bianco poco oltre l'ingresso, proprio quello davanti al quale si snoda una fila da un'altra ora buona.
L'unica consolazione è stata CK. Non Calvin Klein, ma Cleide e Kostantina, due giornaliste - una brasiliana, l'altra greca - che avendo sperimentato le code latinoamericane e mediterranee sapevano come rassegnarsi a una lunga attesa e ingannarla con le ciance.
Hanno impiegato un paio di secondi per capire che sono italiano. Non per l'accento - mi hanno assicurato - ma per il look. Credo fosse un complimento: non avevo la cravatta arancione su camicia nera degli spagnoli, non la t-shirt sdrucita sui pantaloni del completo di gabardine dei francesi e non la giacca due taglie troppo grande di chiunque si trovi a est di Berlino. Ma appena hanno accertato che ero italiano il discorso è andato rapido come un fulmine all'argomento hot del momento.
L'acquisto di Chrysler da parte di Fiat? No.
La tenuta del sistema bancario italiano di fronte alla più grave crisi finanziaria del secolo? No.
La fuga dei cervelli? No.
Le mignotte di Palazzo Grazioli? Sì.
"Ma come? Come" mi ha chiesto Cleide, "un popolo così civile, così raffinato, che tanto a fondo ha segnato la storia può essere caduto così in basso?"
"E come, come è possibile" ha rincarato la dose Kostantina, "che gli italiani non mandino a casa uno come il Cavaliere?"
Io ho obiettato che oltre le escort, le attricette, le veline, le presunte intercettazioni alle ministre c'è lo straordinario intervento in occasione del terremoto in Abruzzo; che in Italia c'è il diffuso senso di necessità di avere al timone qualcuno che sia in grado di prendere una decisione a fronte di una opposizione che non sa neppure che nome darsi, che c'è...
Poi mi mi sono fermato. Del terremoto, dell'inconsistenza dell'opposizione, della Fiat, delle banche, loro sapevano già. Ma erano i retroscena dell'affaire D'Addario che gli interessava. Forse per lo stesso motivo per cui - come ho letto tempo fa in un sondaggio - al suono della parola Kennedy la maggioranza degli americani pensa prima a Marilyn che canta tanti auguri Mr President, poi a Jackie che scatta verso i portabagagli della vettura presidenziale per raccattare un pezzo di cranio del marito e dopo, solo dopo, a cose come la crisi dei missili a Cuba, a frasi come Ich bin ein berliner o alla Baia dei Porci.
Perché forse il destino degli uomini di potere è di essere ricordati prima per le donne che hanno avuto (successe anche ad Antonio e Cleopatra, molto prima di Bill e Monica) che per la traccia che hanno lasciato. E se quella traccia profuma più di Chanel che di sudore, cordite e dolore, allora non ci sarà scampo.
Ma la ricetta non è nell'astinenza: nessuno ha mai attribuito un flirt a George W. Bush, eppure quanto avremmo preferito che avesse avuto la fissa per una bella mora piuttosto che la smania di marciare su Baghdad?

mercoledì 30 settembre 2009

L'avverbio è tuo nemico

Il suo primo (e finora unico) libro non mi era piaciuto. Il suo stile pieno di aggettivi e avverbi mi aveva irritato più delle frasi interminabili o dell'abuso di incisi e subordinate. Oggi leggendo un articolo (?) scritto per il Corriere della Sera posso ribadire la mia convinzione: Alessandro Piperno è sopravvalutato. Spero di essere smentito dal suo prossimo romanzo (che chi gli vuole male dice sarà il prossimo premio Strega) e nel frattempo non commento il contenuto dell'articolo (?).
Ai miei allievi del corso di scrittura insegno a diffidare di alcuni insidiosi compagni di viaggio: l'avverbio, l'aggettivo e i termini desueti o da milieu post-intellettuale. Allego lo scritto di Piperno ed evidenzio solo gli avverbi. Giudicate voi.

Mi chiedo se ciò che vie­ne corrivamente definito «innocentismo» non celi una leale seppur complicata aspirazione umanista. Lo so, per molti l’innocen­tismo è un moto dell’animo tipico di individui privi di struttura e di spina dorsale; la malattia dostoevskiana di chi riesce a identificarsi con l’assassino e non con la vitti­ma, o l’incubo kafkiano di chi teme di essere incastra­to da un momento all’altro per un reato non commes­so. Insomma qualcosa che rischia di diventare, nel mi­gliore dei casi pietistico las­sismo, e nel peggiore posa estetizzante. Tanto più di questi tempi in cui il più prelibato divertissement dei miei connazionali sem­bra consistere nello snidare criminali, leggere intercetta­zioni, spulciare verbali, co­struire ben documentate cattedrali del sospetto. Ma che posso farci se tale dema­gogico esercizio mi appare così rivoltante? E se un mo­to interiore che non ha nien­te a che fare con il sentimen­talismo mi spinge sempre a ipotizzare, di primo acchito, l’innocenza di un mio simi­le?
In questi anni, da che Chiara Poggi è stata trovata morta e il suo ragazzo Alber­to Stasi accusato di averla as­sassinata, è la terza volta che mi capita di chiosare gli ultimi sviluppi del «caso Garlasco». Constato che i due precedenti pezzi erano animati da uno spirito dis­sennatamente innocentista, cui la perizia super partes dell’altro giorno sembra aver dato retroattivamente ragione. Certo, si tratta di una medaglia di latta che non ha nessun senso esibi­re. Più interessante mi sem­bra il fatto che ancora una volta la mia attenzione si concentri su Alberto Stasi. Sulla storia che lo riguarda che, qualora lui fosse inno­cente, mi parrebbe il più perfetto e paradigmatico tra gli incubi contemporanei. Mi spiego. A chi è accadu­to di vedere una propria fo­to sul giornale sa quanto ta­le esperienza sia straniante. La verità è che quella foto ti parla di tutto fuorché di te stesso. Tanto che certe volte hai il sospetto che sia un surrogato, un apocrifo, un’impostura bell’e buona creata ad arte per screditar­ti. Non c’è niente di più pe­noso della discrasia tra il pensiero intimamente affet­tuoso che nutri per la tua ir­rilevante personcina e quel­la specie di essere disgusto­so (quel Mr Hide) catturato dalla foto ora riprodotta, senza il tuo consenso e sen­za alcun ritegno, in centina­ia di migliaia di esemplari.
Mi chiedo se Alberto Stasi, frattanto, abbia fatto il callo alle sue mille foto apparse in questi due anni sui gior­nali. Nel qual caso a que­st’ora saprà che non c’è cen­timetro quadrato del suo corpo né impercettibile det­taglio del suo contegno che non parli di colpevolezza: l’incarnato diafano, la so­brietà dei lineamenti, la sfuggente pudicizia, tutto lo rende l’interprete ideale del ruolo di Stavroghin in una eventuale trasposizione ci­nematografica de I demoni di Dostoevskij. Eppure c’è la possibilità che Stasi, a di­spetto delle più promettenti apparenze, sia semplice­mente innocente. A quanto pare, oltre al suo corpo, al suo contegno e a certe bieche predilezioni sessuali non c’è indizio del­la sua colpevolezza. Ed ecco l’elemento che, al postutto, più mi agghiaccia: tutto nel­la nostra vita (tutto quello che facciamo e non sappia­mo di fare, tutto quello che siamo e non sappiamo di es­sere) può offrire la futura prova e il futuro movente della nostra colpevolezza in un crimine che non abbia­mo ancora commesso e che forse mai commetteremo.

domenica 27 settembre 2009

New York - part one

Non sono un blogger professionista. Uno che fa sul serio si sarebbe messo di impegno e - anche a costo di scrivere un poema sulla scomodissima tastiera del Nokia N73 - avebbe aggiornato i propri lettori ogni due ore su quello che succedeva all'Assemblea generale dell'Onu. Ma io avevo già troppo da fare con l'Agi per trovare il tempo o forse la voglia di rimettermi là a digitare con il T9. vi sareste accontentati di quello che già avevo scritto per l'Agenzia, ma avreste voluto qualcosa di più. Di quelle cose che uno non metterebbe mai in un articolo.
Così ora che sono tornato, in un pomeriggio libero prima del rientro in redazione, cerco di sintetizzare in pillole, giusto per non perdere memoria di questi giorni.
Il mazzo
C'è gente che mi dice anch'io vorrei scrivere un romanzo, ma non ho mai tempo di mettermi a farlo e gente che dice ah, beato te che viaggi e ti diverti. Bene: nella maggior parte dei casi chi dice una di queste due cose sa di dire una stronzata. Chi dice di voler scrivere un romanzo e non si mette mai a scriverlo in realtà non vuole farlo. O magari crede che gli manca solo l'idea giusta e che se ce l'avesse, grazie al suo brillante stile e alla sua infinita scienza sbaraglierebbe il mercato. Ma non lo sapremo mai e non lo saprà neppure lui perché uno che dice di voler scrivere, ma non scrive non prenderà mai in mano una penna. Lo stesso vale per molti (ma non tutti) quelli che dicono la seconda frase. Ci sono quelli che lo fanno in buona fede e non sono giornalisti. E ci sono quelli che lo fanno in malafede e sono perlopiù giornalisti che non viaggiano perché non sarebbero neppure capaci di trovare la strada per l'aeroporto.
Viaggiare per lavoro mi piace. Mi diverte. Ho imparato a ritagliarmi dei microspazi di tempo per girare per le città in cui mi trovo (e, credetemi, non è facile) perché dopo le prime due missioni ho capito che se tutto doveva esaurirsi in un trasferimento da un aeroporto a un ministero/presidenza/parlamento, tanto valeva restare in redazione. Ci sono dei veri professionisti che partono qualche giorno prima dell'effettivo inizio della missione per godersi la città, ma ogni notte passata lontano dalla mia famiglia mi sembra una notte perduta, così cerco di limitare al massimo le assenze che già troppo spesso infliggo a mia moglie e ai miei figli. Per questo chi fa quel sorrisetto tipo ti vai a divertire non ha capito niente oppure mente. In missione ci si fa il mazzo. Chi lavora per un'agenzia scrive il primo pezzo appena sveglio e l'ultimo prima di andare a dormire. Non può permettersi di abbandonare il bidone neppure un istante perché il ministro o il premier di turno può uscire da un momento all'altro e riservare al mondo notizie e corbellerie che i giornalisti della carta stampata e del web sono ansiosi di rilanciare. E i giornali pagano perché le agenzie gli coprano le spalle.
E ora se siete pronti a viaggiare sul volo AZ608 (ma in economy perchè vi sembra assurdo spendere i soldi per la business mentre si parla di stato di crisi e di prepensionare 18 colleghi) venite con me. Terminal C, ore 9,50.

giovedì 17 settembre 2009

Il plot e il coraggio di cambiare

Plot. E' una parola tosta da tradurre, perchè in inglese sintetizza un mucchio di significati. Non è solo trama, ma anche ritmo, coinvolgimento e tutto quanto può portare a tenere il lettore ancorato a un libro fino all'ultima pagina.
Plot è la parola che più spesso mi è capitato di sentir pronunciare durante le conversazioni con gli autori americani. E quando ho accennato qualcosa sui miei romanzi mi sono sentito dire (con sollievo) "ah, so you're a plot guy".
Il che dovrebbe suonare come un complimento a uno che tenta (a prescindere che ci riesca o meno) di dare trama, ritmo e coinviolgimneto alla storia che racconta.
Plot è la cosa che sembra contare di più nella letteratura americana contemporanea. A guardare bene anche in libri letterariemente complessi come L'informazione di Marin Amis o Le correzioni di Jonathan Franzen c'è una buona dose di trama. C'è sempre qualcosa che accade, una trasformazione che riguarda il protagonista.
Parlando con un autore americano mi è capitato di discutere dei libri italiani tradotti negli Usa, un mercato da sogno per qualunque scrittore, quasi inarrivabile. Un agente mi ha detto che gli editori statunitensi cercano dagli autori italiani proprio quella letterarietà pura che ne è la cifra stilistica più riconoscibile. Da qui, ad esempio, la contesa per aggiudicarsi i diritti di Tempo materiale di Giorgio Vasta, libro letterariamente straordinario e dalla narrazione densa.
Tra le chiacchiere però mi è venuto il dubbio che quella assenza di plot di cui alcuni ambienti letterari si fanno vanto non sia poi davvero un bene.
Se ripenso a quello che gli americani intendono per plot - il percorso che il protagonista compie da A a B e la mutazione che subisce o imprime alle cose - mi rendo conto che manca in alcuni dei più recenti succesi letterari. Come è possibile, mi chiedo, che un libro in cui non succede nulla scali le classifiche? Che la semplice narrazione di vite dolorose o vuote, senza alcun accadimento o mutazione nel mezzo, riesca a coinvolgere decine di migliaia di lettori in barba ai precetti della scuola americana?
Forse la risposta sta in quello che un libro, molto spesso, deve essere: lo specchio dei propri tempi.
Forse libri che non raccontano mutamenti nè riscatti e affogano invece nella frustrazione di personaggi incapaci di imprimere una qualunque svolta sono l'esatto specchio di questa Italia in cui tanti sono prontissimi a lamentarsi del proprio lavoro o del proprio matrimonio, ma non hanno il coraggio di fare qualcosa per cambiare.
E forse è questo che manca a certa nostra letteratura: il coraggio di cambiare e di accettare il cambiamento.