La fila è sempre quella sbagliata. Alle poste come in banca, al supermercato come al benzinaio. Vale anche per le Nazioni Unite. Perché il grande, elegante e - per l'epoca - ultramoderno Palazzo di vetro uno potrebbe ancora immaginarselo come il il regno dell'utopia, dove tutto ciò che nel mondo non va invece funziona benissimo, non si fanno le file e ognuno, pur parlando la propria lingua, capisce cosa dice l'altro.
Potremmo ancora illuderci che sia così se presidenti su presidenti, dittatori dopo dittatori, non ci avessero spiegato mille volte che l'Onu è il regno dello spreco, dell'inefficienza, delle tattiche dilatorie. Ma basta molto meno che sessant'anni di conflitto mediorientale per far vacillare la fiducia nelle Nazioni Unite: è sufficiente far la fila per un'ora davanti al numero 108 di First Avenue per poi scoprire che gli accrediti per la stampa in realtà li consegnano al tendone bianco poco oltre l'ingresso, proprio quello davanti al quale si snoda una fila da un'altra ora buona.
L'unica consolazione è stata CK. Non Calvin Klein, ma Cleide e Kostantina, due giornaliste - una brasiliana, l'altra greca - che avendo sperimentato le code latinoamericane e mediterranee sapevano come rassegnarsi a una lunga attesa e ingannarla con le ciance.
Hanno impiegato un paio di secondi per capire che sono italiano. Non per l'accento - mi hanno assicurato - ma per il look. Credo fosse un complimento: non avevo la cravatta arancione su camicia nera degli spagnoli, non la t-shirt sdrucita sui pantaloni del completo di gabardine dei francesi e non la giacca due taglie troppo grande di chiunque si trovi a est di Berlino. Ma appena hanno accertato che ero italiano il discorso è andato rapido come un fulmine all'argomento hot del momento.
L'unica consolazione è stata CK. Non Calvin Klein, ma Cleide e Kostantina, due giornaliste - una brasiliana, l'altra greca - che avendo sperimentato le code latinoamericane e mediterranee sapevano come rassegnarsi a una lunga attesa e ingannarla con le ciance.
Hanno impiegato un paio di secondi per capire che sono italiano. Non per l'accento - mi hanno assicurato - ma per il look. Credo fosse un complimento: non avevo la cravatta arancione su camicia nera degli spagnoli, non la t-shirt sdrucita sui pantaloni del completo di gabardine dei francesi e non la giacca due taglie troppo grande di chiunque si trovi a est di Berlino. Ma appena hanno accertato che ero italiano il discorso è andato rapido come un fulmine all'argomento hot del momento.
L'acquisto di Chrysler da parte di Fiat? No.
La tenuta del sistema bancario italiano di fronte alla più grave crisi finanziaria del secolo? No.
La fuga dei cervelli? No.
Le mignotte di Palazzo Grazioli? Sì.
"Ma come? Come" mi ha chiesto Cleide, "un popolo così civile, così raffinato, che tanto a fondo ha segnato la storia può essere caduto così in basso?"
La tenuta del sistema bancario italiano di fronte alla più grave crisi finanziaria del secolo? No.
La fuga dei cervelli? No.
Le mignotte di Palazzo Grazioli? Sì.
"Ma come? Come" mi ha chiesto Cleide, "un popolo così civile, così raffinato, che tanto a fondo ha segnato la storia può essere caduto così in basso?"
"E come, come è possibile" ha rincarato la dose Kostantina, "che gli italiani non mandino a casa uno come il Cavaliere?"
Io ho obiettato che oltre le escort, le attricette, le veline, le presunte intercettazioni alle ministre c'è lo straordinario intervento in occasione del terremoto in Abruzzo; che in Italia c'è il diffuso senso di necessità di avere al timone qualcuno che sia in grado di prendere una decisione a fronte di una opposizione che non sa neppure che nome darsi, che c'è...
Poi mi mi sono fermato. Del terremoto, dell'inconsistenza dell'opposizione, della Fiat, delle banche, loro sapevano già. Ma erano i retroscena dell'affaire D'Addario che gli interessava. Forse per lo stesso motivo per cui - come ho letto tempo fa in un sondaggio - al suono della parola Kennedy la maggioranza degli americani pensa prima a Marilyn che canta tanti auguri Mr President, poi a Jackie che scatta verso i portabagagli della vettura presidenziale per raccattare un pezzo di cranio del marito e dopo, solo dopo, a cose come la crisi dei missili a Cuba, a frasi come Ich bin ein berliner o alla Baia dei Porci.
Perché forse il destino degli uomini di potere è di essere ricordati prima per le donne che hanno avuto (successe anche ad Antonio e Cleopatra, molto prima di Bill e Monica) che per la traccia che hanno lasciato. E se quella traccia profuma più di Chanel che di sudore, cordite e dolore, allora non ci sarà scampo.
Ma la ricetta non è nell'astinenza: nessuno ha mai attribuito un flirt a George W. Bush, eppure quanto avremmo preferito che avesse avuto la fissa per una bella mora piuttosto che la smania di marciare su Baghdad?
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