Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile

lunedì 22 dicembre 2008

Hats off to Maria

Il violento scossone della caldaia che si metteva in funzione faceva tremare anche la testiera del mio letto. Quel vecchio polmone che sputava carbone nel cielo di Long Island era il mio buongiorno. Avevo fatto in fretta ad abituarmici e ad aiutarmi era il rumore che ogni mattina precedeva quel fragore di acciaio e rame. I passi di Maria lungo la scala che portava nel basement erano pesanti e incerti. Mi stupiva sempre come una vecchietta così esile potesse fare tanto baccano per scendere la dozzina di scalini che dal piano nobile della casa di West Beech st. portava nel regno che avevo usurpato: il seminterrato.
Ero orgoglioso di quella sistemazione. Era gratis, innanzitutto, e per un ragazzo di ventiquattro anni in fuga dall'Italia era una manna dal cielo. E poi era una specie di Paese dei Balocchi, con tanto di flipper anni '60 e bancone da bar. L'avevano sistemato così perché l'intenzione era che diventasse... Non lo sapevano bene neppure loro, ma quando avevo chiesto ospitalità me l'avevano messo a disposizione: molto più spazio di quello che mi serviva. Lo strattone della caldaia dopo poche ore di sonno era un disagio più che lieve da sopportare.
Maria parlava poco. Cucinava i più orribili pancake che abbia mai mangiato, ma solo perché era cibo americano e lei disprezzava quella roba. Così nei - rari - pasti che consumavo a casa mi rifacevo degli hot-dog da un dollaro e hamburgher a buon mercato con cui tamponavo la fame nelle mie giornate a Manhattan.
Come io mi ero abituato in fretta al chiasso della caldaia, così Maria aveva familiarizzato con i miei orari balordi. Le avevo spiegato che dovevo far coincidere i miei ritmi con quelli delle redazioni in Italia, ma lei era convinta che se mi ritiravo alle tre di notte era solo perché stavo a bighellonare perla città.
Insieme a poche parole condividevamo rituali essenziali. Era lei a portarmi a tavola un bicchiere colmo di spremuta d'arancia Tropicana a colazione ed ero io a lasciare ogni notte il segnale convenuto che doveva rassicurarla sul mio rientro a casa. Ogni notte, prima di andare a dormire, lasciavo il bicchiere con cui avevo bevuto l'ultimo sorso d'acqua della giornata sempre nello stesso angolo della cucina. Una notte che non avevo sete mancai il segnale e l'indomani i passi di Maria lungo la scala furono più pesanti del solito e a svegliarmi non fu il clangore della caldaia, ma lei che si precipitava a controllare che fossi tornato. Non mancai più di lasciare il bicchiere nel posto convenuto.
Una sola volta l'accompagnai a fare la spesa. Ci vollero quattro ore, perché se cercava dello sciroppo d'acero doveva passare in rassegna tutte le 99 marche disposte sullo scaffale; confrontare prezzi, data di scadenza e origine. E poi perché non ero in grado di aiutarla: nel suo personale idioma gli articoffi erano i carciofi e la emma il prosciutto. Mi serviva più tempo per comprendere di cosa avesse bisogno che per trovarlo.
Le avevo promesso che le avrei letto la saga che sto portando avanti da anni e che è ispirata alla straordinaria storia della sua famiglia. Non so quando finirò di scriverla e probabilmente avevo fatto male a farle quella promessa.
Ne ho avuto la conferma oggi, quando mi è arrivata una telefonata da molto lontano. "Maria non potrà più portarti l'aranciata" mi ha detto chi aveva imparato a conoscere i nostri rituali e un tempo ne aveva riso.
Hats off to Maria.

venerdì 19 dicembre 2008

Que Viva Varesi!

Che vi avevo detto del feeling che si instaura tra i finalisti di un premio letterario (quando sono simpatici)? E quindi è con enorme soddisfazione che annuncio la vittoria di Valerio Varesi alla
XII edizione del premio Franco Fedeli, organizzato dal Siulp, il sindacato unitario dei poliziotti.
Il buon Valerio, che era candidato come me al Premio Scerbanenco, si è aggiudicato il riconoscimento con il romanzo "Oro, incenso e polvere", edizioni Frassinelli.
Questa la motivazione stilata da Giuseppe Giliberti con la collaborazione di Valerio Calzolaio e Maurizio Matrone : In una cornice realistica e attuale, con rapporti chiari tra le gerarchie dell’indagine, là dove il caso si combina apparentemente con un disegno divino, il nostro poliziotto sbroglia una vicenda – anche personale - che la nebbia, marchio di fabbrica del nostro vincitore, non ha saputo dissimulare. Una storia di uomini posti brutalmente di fronte all’età che avanza, alla fine dell’età dell’oro e alle prese con le proprie debolezze e inadeguatezze nei confronti di donne forti e risolute. Un mercato dei pregiudizi, dei sentimenti e delle relazioni umane che non risparmia nemmeno il commissario Soneri, investigatore idealista e disilluso. Ispirato a un mix di storie realmente accadute il romanzo della maturità di Valerio Varesi ha convinto per la bella scrittura, la complessa veridicità del poliziotto, la costruzione della trama.
Que Viva Valerio!

martedì 16 dicembre 2008

Tre sorelle e un gatto immortale - remastered

Anni fa ho tenuto sull'edizione palermitana di Repubblica una rubrica che mi divertiva molto e che mi permetteva di raccontare le storie incredibili in cui mi imbattevo. Troppo incredibili per sembrare vere, ma che vere lo erano dall'inizio alla fine.
Una delle più folli raccontava di tre sorelle e un gatto immortale. Ancora oggi, quando vado a Palermo, mi capita di incontrare gente che ci chiede di raccomtarla di nuovo.
Eccoli accontentati nella versione originale datata 8 settembre 2001:

TRE SORELLE E UN GATTO IMMORTALE
A dispetto del suo nome, il gatto Stinky non puzzava affatto. E a dispetto del fatto che avesse passato la maggior parte dei suoi 19 anni di vita negli Stati Uniti, si sentiva un gatto italiano. O almeno questo sostenevano le sue padrone, le sorelle G. - Sara, Nina e Maria - siciliane di nascita, ma americane di adozione, che lo avevano raccolto al porto di Genova, uno degli scali coperti dalla loro compagnia di navigazione.
A quattro anni Stinky pesava sei chili e a dieci era in linea perfetta con la tendenza del Paese che lo ospitava: un gatto obeso di dodici chili. Nonostante questo aveva mantenuto un'agilità che gli consentiva di acchiappare gli scoiattoli nel giardino della villa nel New Jersey e di uscire vincitore dalle risse con i gatti di campagna. La vitalità di Stinky si moltiplicava quando le padrone lo portavano con loro nei viaggi in Italia. «È l'aria di casa» diceva Sara, che in cuor suo non si era mai abituata agli States e sentiva la stessa energia scorrerle nelle vene.
Quando Stinky vide che era il momento di smetterla di dare la caccia agli scoiattoli e fare a botte con i gatti selvatici, decise di morire. Ma gli agi di cui aveva goduto per 12 anni avevano un prezzo: l'immortalità. Le sorelle G. non avevano alcuna intenzione di rassegnarsi al corso naturale delle cose e stabilirono che Stinky non poteva e non doveva morire. L'assegno che staccarono alla Goldstein animal clinic di Manhattan aveva tre zeri preceduti da un numero superiore a cinque. Ma quando il gatto Stinky uscì dall'edificio nell'Upper East Side avrebbe fatto invidia a Cher. Il pelo rifulgeva di un rosso brillante, le zampe lo sostenevano forti e solide, la coda, rimasta un po' storta dopo un combattimento, era dritta come un fuso. La cataratta che gli velava lo sguardo era scomparsa. Qualcuno, lì nel Jersey, raccontò che gli avevano fatto lo stesso trattamento che altrove era riservato a Mick Jagger: il lavaggio completo del sangue.
Sette anni dopo Stinky era vittima di un accanimento terapeutico che lo aveva trasformato in una specie di cuscino da poltrona. Di fronte a tanto sfacelo, Sara decise che un viaggio in Italia era l'unica possibilità di riportare un po' di energia nelle vene del gatto. Le sorelle G. presero in affitto una casa al mare e partirono. Appena fuori dalla gabbia, nella deliziosa villetta che si affacciava sul mare, Stinky dimostrò che Sara aveva visto giusto. Spiccò un piccolo balzo, si fece una corsetta su e giù per la terrazza, girò su se stesso per una paio di volte e poi cadde a terra, morto stecchito.
Raccontare il dolore delle sorelle G. potrebbe forse spiegare perché avessero fatto tanto per tenere in vita un gatto ben oltre il tempo consentito, ma distrarrebbe dall'incredibile odissea di Stinky, che iniziava con il suo improvvido decesso.
La prima decisione che presero fu che la vacanza finiva quel giorno.
La seconda fu che Stinky doveva tornare con loro negli Stati Uniti.
Di fronte alle facce devastate dal dolore delle sorelle G., l'impresario funebre decise che bisognava inalberare l'espressione più contrita del suo repertorio. Fece le sue condoglianze in ordine di età, da Sara a Maria, e chiese, quasi con un sospiro, dove era il congiunto. Quando le sorelle lo fecero accomodare in cucina, l'impresario riuscì a contenere la sorpresa, ma quando Nina aprì lo sportello del congelatore per mostrare il gatto chiuso in una busta trasparente fece un salto all'indietro. Nina tirò fuori Stinky, rigido come uno stoccafisso, e glielo mostrò.
«È lui» disse.
«È uno scherzo» si sforzò di sorridere l'impresario.
Ci volle mezz'ora buona perché le sorelle facessero capire senza ombra di malintesi che volevano portare il cadavere di Stinky in America per dargli degna sepoltura, ma che c'era un problema: se negli Stati Uniti era impossibile fare entrare una fetta di salame, figurarsi un gatto morto! Superata la perplessità e rassicurato dalla garanzia che la spesa non era un fattore influente, l'impresario si mise al lavoro. La prima cosa che fece fu infilare il gatto in una bara e metterlo in uno sgabuzzino esterno che aveva l'aria di essere la stanza più fresca della casa.
L'indomani mattina, quando le sorelle si svegliarono per affrontare una nuova giornata di dolore, trovarono la porta dello sgabuzzino aperta e il padrone di casa, un uomo anziano e rispettabile, disteso per terra, svenuto. Era successo che all'alba il pover'uomo era andato a prendere alcuni attrezzi e, appena aperta la porta, si era trovato davanti la bara, piccola e candida. Le sorelle gli spiegarono che cosa era successo, ma lui - anche lui - fece un po' di fatica a capire e quando se ne andò era più confuso che persuaso.
Poi venne il turno di un veterinario della Asl. Toccava a lui stabilire che la morte del gatto non era dovuta a un virus, ma quando Nina gli disse il perché di tutte quelle procedure, l'uomo guardò a lungo negli occhi l'impresario e i due esplosero in una fragorosa risata. Ci vollero alcuni minuti perché si riprendessero e, sotto l'espressione severa di Nina, cominciasse l'autopsia.
Poi fu la volta del console americano. L'uomo sapeva che di fronte a un passaporto con l'aquila calva sulla copertina tutto diventava possibile, ma gli riuscì di trattenere le risate solo per pochi minuti. Mentre metteva il nulla osta sui risultati dell'autopsia, cominciò a ridere e smise solo dopo che l'indignata espressione di Nina ebbe lasciato l'ufficio.
Svuotato di sé e riempito di segatura, il gatto Stinky arrivò all'aeroporto di Punta Raisi per intraprendere il suo ultimo viaggio. Quando le sorelle si presentarono alla dogana con i documenti per il gatto, i tre finanzieri si guardarono negli occhi e poi fissarono le tre donne. Decine di contadine avevano viaggiato avanti e indietro dagli Stati Uniti in meno di 48 ore per portare droga nei capienti reggiseni e pensarono che quello fosse un nuovo stratagemma, ma non avrebbe funzionato. Chi poteva aver interesse a portare un gatto di dodici chili negli Stati Uniti se non era pieno di eroina? L'attesa del veterinario e di una nuova autopsia fece perdere l'aereo alle sorelle. Ma sarebbe stato nulla se non avessero dovuto subire l'onta di veder morire dal ridere i finanzieri e il veterinario mentre riconsegnavano il gatto.
La scena stava per ripetersi all'aeroporto JFK di New York quando un agente dell'Fbi si convinse di essere vicino al colpo della sua carriera. Ordinò agli uomini della dogana di lasciare andare il gatto e le donne e si mise alle loro calcagna. Le seguì fino a casa e organizzò dei turni di sorveglianza. Ma nelle ventiquattr'ore che seguirono nessuno si avvicinò alla villa. Al pomeriggio successivo una delle donne uscì in giardino, scavò una buca e tornò in casa. L'indomani, tutte e tre insieme, calarono la scatola di legno con il gatto nella buca e la coprirono. Rimasero un po' a piangervi sopra, poi tornarono in casa. L'agente attese altre quarantott'ore, poi si arrese. Quella sera, vedendolo particolarmente buio, il barista del locale vicino casa gli chiese se qualcosa fosse andato storto. L'agente scosse un po' il capo. «Credevo di aver messo le mani su un gruppo di corrieri dei mafiosi del Jersey - disse - e invece erano solo tre sorelle matte che si erano portate dall'Italia un gatto morto per seppellirlo in giardino». Rimase un po' a fissare la sua birra, poi cominciò a ridere fino alle lacrime. Alcuni giorni più tardi decise di passare dalla villa. Sulla buca c'era una lapide e sulla lapide, in equilibrio come se fosse vivo, un enorme gatto di granito.
Ma neanche allora l'odissea di Stinky poté dirsi conclusa. Anni dopo, quando le sorelle decisero di trasferirsi in Italia, il gatto fu riesumato, cremato e le ceneri deposte in un'urna, che Nina conserva ancora sul comò della sua stanza da letto.

mercoledì 10 dicembre 2008

Le bilance di Fiumicino: due pesi e due misure

Questo è un breve spunto per gli allievi delle scuole di giornalismo. O per quelli di Striscia la notizia, se hanno voglia di fare un salto all'aeroporto di Fiumicino.
La settimana scorsa io e mia moglie siamo partiti per Courmayeur, dove al Noir Fest sarebbe stato consegnato il Premio Scerbanenco. Volo Roma-Torino con AirOne e poi a Caselle è venuta a prenderci un'auto dell'organizzazione. Solita indecisione sui bagagli: un trolley medio per due o un trolley piccolo per ognuno? Alla fine sono riuscito a convincere mia moglie che con il trolley da cabina avremmo evitato di aspettare al nastro bagagli a Caselle e soprattutto scongiurato una sfiga come quella piombata su un giurato la cui valigia invece che a Torino è finita a Catania. E con -5 gradi e i prezzi assurdi di Courmayeur non è uno scialo trovarsi in mezzo alla neve senza cambio.
Bagaglio ridotto all'osso per sfuggire alla bilancia e computer nella borsa ci presentiamo al check-in del volo per Torino. Il tizio ci fa poggiare il bagaglio di mia moglie sulla bilancia mentre al banco accanto un altro passeggero litiga con una hostess di terra. Non sono affari miei e non mi impiccio (balle, è solo che non riuscivo a sentirli). Il tizio del check-in ci guarda e dice: "bisogna imbarcare". Come bisogna imbarcare? "Eh sì: pesa 11 chili, quindi o lo alleggerite di sei (mia moglie avrebbe dovuto indossare tutto quello che aveva in valigia incluse due paia di scarpe) o lo imbarchiamo". Perplesso ho chiesto che fosse pesato anche il mio trolley: otto chili!
Ora, io non vendo frutta al mercato e non ho particolare dimestichezza con le unità di misura. Se devo calare un etto di pasta a occhio è più probabile che mi ritrovi sul piatto una porzione pediatrica o una da camionista, ma tra una valigia di cinque e una di otto chili credo di saper ancora distinguere. Prima che mia moglie abbia il tempo di innervosirsi il tizio si accorge che il nostro non è un biglietto della compagnia con la quale tentavamo di imbarcarci - la Blu Express - ma di Air One e ci dirotta a un altro banco.
Stessa scena, ma pesa diversa: il trolley di mia moglie passa miracolosamente da 11 a otto chili e il mio da otto a cinque. Mia moglie è ancora fuori norma perché il massimo consentito a bordo è 5 chili, ma nel mio caso la differenza è tra un bagaglio in cabina e una valigia persa a Catania. Comunque ci lasciano portare in cabina anche quello da otto chili perché tanto c'è gente che si carica pure un quarto di bue e stare a fare polemica su tre chili non conviene a nessuno.
Ma una domanda resta: perché c'è una differenza di tre chili tra una bilancia e l'altra? Le compagnie low cost guadagnano sul peso in eccesso in base a criteri stabiliti qui per quanto riguarda Blu Express e qui per quanto riguarda Ryanair che comunque parte da Ciampino. Non credo che nel nostro caso avremmo dovuto pagare di più, ma di certo avremmo dovuto aspettare di più.
Rimane il fatto che davvero a Fiumicino si applicano due pesi e due misure.
P.S.: poi l'ho scoperto, il passeggero e l'hostess di terra litigavano perché lui non voleva imbarcare in stiva un bagaglio che sosteneva di aver trasportato in cabina - con lo stesso peso - nel viaggio di andata. Due viaggi, due misure.

sabato 6 dicembre 2008

Ecco com'è andata allo Scerbanenco

Ero venuto agguerrito e carico di pregiudizi. Funziona sempre così ai premi letterari, poi mi capita di trovarmi a pranzo con gli altri concorrenti e scoprire che (quasi tutti) sono simpatici e allegri, che tutti insieme ci si sforza di penderla come una gita e che tutto sommato quella fascetta sulla copertina del libro non fa tutta questa differenza.
Così questa sera se avesse vinto Tommaso Pincio o Angelo Petrella mi sarebbe stato bene. Non sono così falso da arrivare a dire che sarei stato contento, ma sono simpatici, molto simpatici e magari gli ultimi ossicini del rospo sarebbero andati giù più facilmente. Avrei ben tollerato la vittoria di Valerio Varesi, che al Premio Scerbanenco è un po' come Francis Ford Coppola all'Oscar fino all'anno scorso: sempre candidato e mai una statuetta.
E invece ha vinto Paola Barbato.
Devo confessare che non ho letto nessuno dei libri in gara. Mi riprometto di leggere Cinacittà di Pincio e La città perfetta di Petrella, ma fino ad ora il mio giudizio si è dovuto limitare alla prima impressione che mi hanno fatto le persone. Il che in letteratura è un paradosso, perché in genere si ama uno scrittore fino a scoprire che è un odioso farabutto e nonostante questo a volte la passione resta. Con i miei compagni di avventura allo Scerbanenco, invece, ho dovuto fidarmi non della parola scritta, ma di quella parlata; delle risate condivise invece che di quelle descritte su pagina. E mi è andata bene. Con Varesi, tipo riservato e attento, ho avuto una breve, ma interessante conversazione sulla sceneggiatura e su Parma. Con Pincio e Petrella ci siamo fatti proprio delle gran risate. Ero persino partito prevenuto nei confronti di Tommaso, perché uno che abbandona il proprio nome per assumere uno pseudonimo che ricorda Thomas Pynchon mi insospettiva. E invece è una persona sensibile e divertente, ironica e mai cinica. Angelo, poi, è vero spasso.
Su Paola Barbato non posso dire nulla. Assolutamente nulla, perché non ho scambiato con lei neppure due parole. Posso solo dire che non mi è piaciuto il tono con cui ha risposto alle domande di Valerio Calzolaio, incaricato di presentare il suo libro.
Questa la motivazione con cui le è stato assegnato il premio:
“Il romanzo traccia a tinte forti una realtà oscura e alternativa fatta di violenze sotterranee e destini emarginati ed è caratterizzato da una scrittura cupa e claustrofobica che preme sulla pagina come una cappa di piombo dalla quale i personaggi non riescono ad emergere. Ma nel suo delirante parossismo il romanzo delinea le coordinate di un mondo in cui la quotidianità diventa il miraggio a cui i protagonisti neanche provano ad aspirare dal basso del loro delirio di violenza”.
Un noir, non c'è dubbio.

venerdì 5 dicembre 2008

Neve sul Noir

Courmayeur ci ha dedicato una bella nevicata. Ha cominciato a venir giù verso sera e non ha ancora smesso. Le previsioni dicono che andrà avanti così per tutta la giornata di domani. Sono impreparato: jeans e Brian Cress da città non sono l'ideale per affondare in quasi un metro di neve. Pago lo scotto di non aver voluto fare la figura di Totò e Peppino a Milano, ma per fortuna sono stato abbastanza previdente da pensare a piumino, guanti e sciarpa. Confortevole dalle ginocchia in su, clinicamente ibernato dalle rotule in giù.
Ho scoperto - ma in fondo lo sapevo già - che i noiristi si conoscono tutti e che per loro il Premio Scerbanenco e il Noir Film Festival sono come il Gruppo Vacanza Piemonte: un appuntamento imperdibile. Per tutto l'anno si scrivono, si incontrano a drappelli alle presentazioni, creano gruppi su facebook o fanno volare gli stracci sui blog, ma è qui a Courmayeur che si danno appuntamento per ideare nuove raccolte, mettere in cantiere collaborazioni e, perché no, spettegolare su assenti e presenti.
Dopo la cena a inviti (anche qui mi sono presentato vestito in maniera appena appena adeguata: "in montagna è tutto così easy" mi avevano assicurato. Balle!) mi sono goduto un film davvero carino: The bank job diretto da Roger Donaldson. Lo so che definire carino un film è come dire di una ragazza che è interessante o di un uomo che è simpatico, ma non posso metterlo sullo stesso piano di The inside man.
Fra poche ore di nuovo in pista per la presentazione della cinquina finalista. Poi sessione fiume della giuria e alle 22 proclamazione del vincitore in stile And The Winner Is...
Nessuna illusione: i premi vanno come devono andare. Incrocio le dita.

martedì 2 dicembre 2008

Uomini e gentiluomini

Leggendo l'articolo che il Corriere della Sera di oggi dedica alla Fiera del Libro di Guadalajara sono rimasto perplesso. Ranieri Polese, autore dell'articolo, riporta con sarcasmo i già sarcastici commenti dei giornali messicani alla visita lampo di Franco Frattini alla Fiera. Non mi stupisce che i quotidiani locali ci siano rimati mali nel vedere che il ministro degli Esteri del Paese ospite d'onore della Fiera si sia trattenuto appena 25 minuti ("di cui 20 dedicati al suo discorso") e sia andato via di corsa, ma mi stupisce che un giornalista come Ranieri Polese non si sia preso la briga di scoprire il perché di tanta fretta. Gli sarebbe bastato chiamare il suo collega degli Esteri, Maurizio Caprara, esperto di Farnesina, che in quattro e quattr'otto gli avrebbe spiegato il perché e il percome. O magari dare un'occhiata alle quattro-agenzie-quattro che alla fretta di Frattini hanno dedicato un lancio. Ma Ranieri Polese non ha ritenuto che fosse il caso di perdere tempo in queste quisquilie e si è molto divertito a trarre ispirazione dai titoli dei giornali messicani.
Ora io vi racconto come sono andate le cose dato che ero lì e - a differenza di Ranieri Polese - sono uno che il perché delle cose se lo chiede e lo chiede.
In origine la partecipazione di Frattini a Guadalajara prevedeva una tavola rotonda in apertura di Fiera con il presidente messicano Calderon, il premio Nobel Gabriel Garcia Marquez e lo scrittore Carlos Fuentes. Un'occasione ghiotta per noi giornalisti e una dimostrazione di rispetto e di stima da parte di esponenti di spicco del mondo politico e della letteratura latino-americana. Ma evidente non era una missione baciata dalla fortuna e quando già eravamo a Città del Messico sono cominciate ad arrivare le sorprese. Per prima è arrivata la disdetta di Calderon, che ha fatto sapere di non poter partecipare. Poi, con varie scuse, quella di Garcia Marquez e di Fuentes.
Ora immaginate una situazione come questa: un amico vi invita a mangiare una pizza per farvi conoscere altri suoi due amici. Poi però dà buca e con lui gli altri due e voi restate a mangiare con il pizzettaro. Non sarebbe una cosa carina, no? Bene: è più o meno quello che è successo, tanto che noi giornalisti ci siamo chiesti perché Frattini non desse un bel calcio nel sedere a tutta la baracca e se ne tornasse a Roma senza passare da Guadalajara. Ma Franco Frattini è un gentiluomo, mentre evidentemente noi giornalisti - non escluso Ranieri Polese - siamo troppo pronti a indispettirci al primo soffiar di brezza contraria.
E qui viene il colpo di scena, perché Frattini aveva ben più di una ragione per saltare la tappa alla Fiera. A Città del Messico, infatti, abbiamo saputo di un guasto all'aereo di stato. Nulla di grave: un'avaria che ci avrebbe permesso di volare sulla terra, ma sconsigliava una transvolata oceanica. Alla velocità della luce il cerimoniale della Farnesina si è mosso per organizzare il rientro con un volo di linea. Avremmo potuto restare a Città del Messico e partire con un Iberia dopo qualche ora, ma Frattini, che è un gentiluomo, ha detto che sarebbe stato scortese dare buca alla Fiera che ci aveva eletto - primo Paese non di lingua spagnola - ospite d'onore e ha insistito per partecipare, anche solo per pochi minuti, alla kermesse alla quale prendono parte tralaltro 120 scrittori e accademici italiani e 60 case editrici nostrane.
Quindi: di corsa a Guadalajara per un intervento - per quanto fulmineo - di fronte a una marea di gente e al fianco del presidente della Fiera, del governatore dello stato e di un autore premiato. Poi di corsa nel New Jersey per prendere in tempo l'ultimo volo utile per l'Italia: l'Alitalia delle 19,40 da Newark.
Ma non è finita. Il cerimoniale e l'ambasciata a Washington hanno fatto i salti mortali per assicurarsi che su quel volo trovasse posto tutta la delegazione e cioè non solo il ministro e il suo staff e la scorta, ma anche i giornalisti al seguito: in totale 23 persone. "O si parte tutti" aveva detto Frattini, "o non parte nessuno".
Normale? Non direi. Perché c'è un precedente che dimostra il contrario. Il 21 dicembre del 2007 ero a New York al seguito dell'allora ministro degli Esteri Massimo D'Alema per il voto in Assemblea dell'Onu sulla pena di morte. Al momento del rientro, però, qualche genio dell'aeroporto di Westchester - upstate New York - ha sbattuto l'Airbus della presidenza del consiglio contro un cumulo di neve e ha abbozzato una gondola motore. Morale, non si poteva più partire. Capita l'antifona, conoscendo i nostri polli e considerando che si era alla vigilia delle vacanze di Natale, io e gli altri colleghi ci siamo messi a smanettare su internet alla ricerca di un posto su qualunque aereo che ci riportasse in Italia o almeno in Europa. Ma uno dello staff di D'Alema ci ha fermato: dovevamo lasciar fare a loro perché loro avrebbero pensato a tutto e tutti. Qualche ora dopo, però, abbiamo visto il ministro e sua moglie sgattaiolare via alla velocità della luce verso una macchina in attesa. Cosa stava succedendo? Lo stesso tizio dello staff ci ha detto che erano riusciti a trovare solo due posti per il ministro e la consorte e che stava correndo al Jfk per imbarcarsi.
E noi? Il tizio ha allargato le braccia come a dire "ognuno per e Dio per tutti". Peccato però che nel frattempo i voli che avevamo individuato e che non ci avevano fatto prenotare erano già chiusi o belli e partiti, così noi ci siamo trovati in mezzo alla neve ad arrangiarci da soli. O, in alternativa, spendere circa tremila euro per un rientro via Venezia. C'era chi, come me, doveva prendere un traghetto per andare in vacanza; chi aveva lasciato le bambine alla babysitter; chi doveva partire per un'altra missione nel giro di 24 ore. Abbiamo dovuto sganciare cento dollari per tornare a Manhattan e abbiamo pagato un'altra notte d'albergo durante la quale non abbiamo dormito perché l'abbiamo passata a cercare un volo per tornare in Italia. Ci siamo riusciti, ma a cifre folli, anche se non i tremila euro che ci erano stati prospettati.
A questo pensavo quando ho sentito Frattini dire "o tutti o nessuno" e a questo ho ripensato leggendo il sarcastico articolo di Ranieri Polese. Mi domando se, di fronte alla prospettiva di una notte in aeroporto e otto ore in classe economica (cose cui non credo gli inviati della cultura del Corriere siano abituati) avrebbe avuto voglia di essere ancora così sarcastico.
Ma si sa: ci sono uomini e gentiluomini.