Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile

giovedì 29 ottobre 2009

"In Terra Consacrata" ha vinto il Premio Alziator!

E' stata una bella serata. Davvero una bella serata. E non lo dico solo perché ne sono uscito vincitore, ma perché me la sono goduta fino in fondo, fino alle quattro e mezzo del mattino, fatte a sorseggiare rum su una terrazza con una splendida vista su Cagliari.
Tutto, poi, ha avuto un che di miracoloso. Arrivare in tempo alla cerimonia era praticamente impossibile. Il mio aereo da Pechino partiva alle 13,30 e alle 21,30 dovevo a ogni costo essere a Cagliari. Perché fosse possibile dovevano incrociarsi una serie di congiunzioni astrali sulle quali, per via del ritardo cronico dei voli Meridiana per la Sardegna, era impossibile fare affidamento. E invece è filato tutto liscio.

Alle dieci e mezzo del mattino, ricevuto dall'ambasciatore italiano a Pechino, sbircio nervoso l'orologio. Sul traffico di una metropoli non si può fare affidamento e su quello di Pechino men che meno: basta una chiacchierata più lunga del previsto a farmi perdere l'aereo. E invece arrivo nel monumentale Terminal 3 perfettamente in orario. L'Airbus nuovo di zecca dell'Air China parte in perfetto orario e pazienza se accumula mezz'ora di ritardo durante il volo. Pazienza anche se dopo essersi scolato 200 cl di grappa cinese a 43 gradi a digiuno il mio vicino di posto si accascia sulla mia spalla ronfando come un mantice e pazienza se sulla poltrona di là dal corridoio un altro continua a scatarrare chinese-style nella bustina per il mal d'aereo. E' un volo più che tollerabile, anche grazie alla possente batteria del mio iPod che mi tiene compagnia per 11 ore e mezzo.
Arrivo a Fiumicino, corsa precipitosa agli imbarchi Meridiana e - sorpresa! - volo in partenza in orario. A Cagliari trovo l'autista pronto e veloce e alle 21,30 in punto sono al Teatro Lirico, dove la cerimonia è iniziata da una manciata di minuti.
E qui ho la prima sensazione positiva: tutto troppo perfetto per essere casuale.
La serata procede, lunga, ma dinamica e senza intoppi. Vengono premiati i finalisti della sezione inedito, quelli per la saggistica e gli autori mediterranei. In quest'ultima sezione c'è un piccolo giallo: è presente solo Lizzie Doron e qualcuno bisbiglia che gli altri due finalisti - due egiziani - hanno dato forfait perchè il loro sindacato degli scrittori non gli avrebbe perdonato di essere saliti sul palcoscenico al fianco di un'israeliana. Poco dopo Salvatore Niffoi farà piazza pulita delle chiacchiere: dietro l'assenza dei due non c'è niente di politico. Ma Lizzie non ci crede.
Arriva un lungo, bellissimo momento musicale dedicato a Fabrizio De Andrè. Sul palcoscenico si danno il cambio i Tazenda, Nada, Viola Valentino e Teresa De Sio che reinterpretano brani di Fabris. Dalle poltrone accanto a me gli altri due finalisti nella sezione narrativa non trovano pace: Gianfranco Manfredi entra ed esce in continuazione dalla sala e Silvia Ronchey sbuffa vapore acqueo da una lunga sigaretta elettronica.
E qui ho una prima sensazione negativa: magari loro sanno già chi è il vincitore.
Sul palcoscenico Michele Mirabella inanella una gaffe dietro l'altra ma le trasforma tutte in teatro e Nadia Bengala non azzecca un accento, ma le sono solidale: neppure io ho molta confidenza con la lingua sarda e avrei fatto i suoi stessi errori.
La platea ammutolisce quando sul palcoscenico sale Lila Azam Zanganeh, scrittrice e giornalista iraniana, docente di Harvard quando aveva appena 22 anni, fluente in cinque lingue. e bella come il sole. Sembra che lei e Mahmoud Ahmadinejad non vengano solo da due Paesi diversi, ma da due costellazioni lontane miliardi di anni luce.
E' mezzanotte passata quando Anna Galiena legge il primo capitolo di In Terra Consacrata. Ho la pelle d'oca, non solo perché dopo aver sentito leggere le stesse pagine a lei e a Laura Morante mi sembra di non poter desiderare un destino migliore per le mie parole, ma perché ci siamo quasi...
Mirabella riprende il microfono.
And the winner is...
Cavolo, non ci posso credere. Salto sulla sedia. Per me sono le sette del mattino, non dormo da 24 ore ma sembro Nino Castelnuovo mentre saltello come un grillo sugli scalini del palcoscenico. I riflettori mi abbagliano, Dori Ghezzi mi fa i complimenti e mi stringe le mani, mi fanno domande e do risposte (sensate) che non ricordo.
Strette di mano, sorrisi, complimenti, adrenalina al massimo. Bellissima sensazione.
Andiamo a cena al ristorante del T-hotel; sono al tavolo con la Ronchey, con Manfredi, con la Zangane e con un pianista che non conosco, ma che ha fatto una splendida interpretazione di un paio di canzoni di De Andrè. Solo dopo un paio di giorni scoprirò che Cesare Picco è un genio assoluto e che il suo ultimo disco è uno dei più belli che abbia mai sentito. A cena sono solo capace di chiedergli se ha già inciso, ignorando il fatto che sia all'undicesimo Lp. Bella figura!
Con Manfredi parliamo di Cina e un po' di montagna. Poi si alza e scompare. Scompare davvero, si smaterializza. Se ne va in camera senza neppure salutare: non so se sperare che sia per maleducazione o per rosiconeria. Dopo un po' ci abbandona anche la Ronchey. Ma lei, almeno, saluta.
Scherzo a lungo con Lizzie Doron. E' bello conoscere finalmente un'israeliana laica, disincantata e ironica come solo gli ebrei sanno essere.
Alle due siamo nell'aria tiepida della notte cagliaritana, tutti troppo eccitati per andare a dormire. Con Niffoi, Luigi Puddu (superbo chitarrista) e il marito della Bengala (una vera scoperta! andiamo a bere rum sulla terrazza di Alfredo Franchini, autore di un bel libro su De Andrè. Si parla di musica, si fa musica. Si parla di letteratura, di quelli che se la tirano e di quelli come noi che sembra che si conoscano da una vita.
Alle quattro e mezzo è ora di andare. Ci abbracciamo promettendoci di risentirci presto e di rivederci altrettanto presto. Siamo una ghenga di amici di vecchia data. Posso andare a dormire con un sorriso e la testa che mi gira.

mercoledì 28 ottobre 2009

Incoerenze cinesi

Non so come gli sia venuto in mente, ma mentre l'orario del mio volo si avvicina in modo inquietante e siamo ancora imbottigliati nel traffico di Pechino, l'autista decide di lanciarsi in un pistolotto sull'influenza A. La sua teoria, in sintesi, è che la gloriosa Repubblica Popolare cinese ha la "potenza" per affrontare il virus, mentre noi europei e soprattutto gli americani siamo spacciati. Non so cosa rispondere, ma uno sguardo eloquente della mia interprete mi risparmia questa fatica. Per fortuna un attimo dopo l'autista si lancia in un soliloquio su quanto sono fortunati i dipendenti di China Radio che anche se non guadagnano molto possono guidare auto (europee) come Audi e Mercedes. Incoerenze cinesi. Incrociamo un'Audi TT guidata da una donna e scatta un altro sproloquio. "Deve avere un sacco di soldi" dico. "Più probabile che abbia un uomo con un sacco di soldi" mi corregge la mia interprete. Lungo la strada si profila il grattacielo della Cctv distrutto da un incendio prima che vi fosse trasferita parte della mastodontica tv cinese. "Un regalo al popolo" lo chiamano i pechinesi con insolita ironia riferendosi ai miliardi di yuan che sono andati in fumo in questa carcassa annerita e malamente piegata su se stessa.

lunedì 26 ottobre 2009

Matrimonio alla cinese

I motorini elettrici passano sibilando accanto a noi. C'è un momento, solitario e fugace, di silenzio, poi il rumore della metropoli torna a deflagrare nelle nostre orecchie. Pechino è più rumorosa di Shanghai. Meno caotica, forse, ma è qui che, più che altrove, si ha la sensazione che una città così enorme possa fondarsi solo sul principio della confusione organizzata. Su una innata diligenza verso certe regole – non tutte, solo alcune, ma ben precise – che fa sì che tutto quello che c'è di sregolato segua la traccia segnata. E' in questa confusione che il cellulare della mia interprete comincia a squillare. Non accade spesso: come i poco-più-che-ventenni italiani preferisce gli sms alle costose telefonate, ma questa volta deve essere qualcosa di importante perché lei, solitamente così placida, quasi urla nel microfono. Di gioia, intuisco. La telefonata è breve, ma concitata. Alla fine, senza bisogno che sia io a chiederle cosa è successo, è lei a parlarmene e anche questo è abbastanza fuori dall'ordinario per una cinese. "Una mia amica si è sposata" mi dice. "La mia migliore amica" precisa. Non so cosa dire: sembra che lo abbia appreso solo ora, eppure non è delusa, né arrabbiata. E' solo stupita. Se il mio migliore amico si sposasse e me lo facesse sapere a cose fatte ci resterei un po' male. Anzi, probabilmente cancellerei il suo nome dalla rubrica. E invece lei è solo meravigliata. "Ma non lo sapevi?" azzardo. "No" risponde. "Bella amica" penso. Ma poi è lei ad accorgersi che sono interdetto e mi dà una spiegazione che aumenta il mio sgomento: "Lo hanno deciso oggi" dice. Guardo l'orologio: sono le tre del pomeriggio. "Oggi quando?". "Stamattina. Mi ha telefonato per dirmelo, ma eravamo in aereo". Questa volta non so proprio cosa dire e ancora una volta lei se ne accorge. "Capita" mi spiega, "si chiamano matrimoni-fulmine. Non c'è una vera e propria cerimonia: si va e si registra il matrimonio al municipio". Vorrei chiederle se, come i fulmini, questi matrimoni durano il tempo che serve a rischiarare una notte buia. Ma lei sta già pensando al regalo che dovrà farle e non voglio essere io a rubare l'espressione felice che ha sul viso.

I Simpson a Shanghai

Ieri sera abbiamo rischiato l'incidente diplomatico. Ci stavamo godendo la serata sul lungofiume di Shanghai: io, Peter e il Colonnello insieme a due delle nostre interpreti cinesi, quando è saltata fuori la questione Simpson. Nessuna delle due conosceva Springfield o il pub di Bo. "Quel cartone nimato che parla di persone gialle…" semplifico parlando in inglese per farmi capire da tutti e sperando di evocare alla loro memoria la carnagione di Homer, Bart, Marge e Lisa. "Persone gialle… come noi?" chiede Chan. Non so come ne siamo usciti, ma c'è voluto un po' di tempo.

domenica 25 ottobre 2009

La Moratti ha un problema

Non vorrei essere il sindaco di Milano. E a pensarci bene neppure il presidente della provincia o della Regione Lombardia.

Perché dopo aver visitato i cantieri dell'Expo di Shanghai non vorrei essere al posto di chi si troverà a dover competere con quello che questa gente sta mettendo in piedi. E visto il ritmo da bradipo sotto narcotici con cui procedono i preparativi italiani c'è da temere che nel 2015 il risultato sarà una baracconata. Con l'aggravante che questa volta la posta in gioco è molto alta. Nel 2015 sarà ancora ben chiaro il ricordo di Shanghai e se l'Italia vuole dimostrare non solo alla Cina, ma al mondo intero che la forza lavoro a basso costo è una cosa, ma lo stile è tutta un'altra questione, l'Expo di Milano potrebbe essere l'ultima occasione.

sabato 24 ottobre 2009

Scrivere al buio

E' quello che sto facendo: scrivere al buio. Da Shanghai non ho accesso a Blogger, né a Facebook, quindi devo adattarmi a provare questo sistema, rudimentale, ma spero efficace. La città è un'esperienza straordinaria. Mi sarebbe piaciuto allegare qualche foto, ma in queste condizioni è davvero impossibile. Ed è un peccato, perché Shanghai, come Pechino per le Olimpiadi, non si e' soltanto rifatta il trucco per l'Expo 2010: si sta rivoltando come un calzino per presentarsi ancora più moderna e fantascientifica. Libera dai legami di cui in qualche modo soffre la capitale, Shanghai può espandersi in qualunque direzione: in verticale – e l'ha fatto un anno fa con l'apertura del Financial Centre, un enorme apribottiglie che svetta 492 metri sopra la città – e in orizzontale, con un'espansione che segue le bizzarre direttrici disegnate dalle tangenziali.
Se un tempo Shanghai era la città del Bun e dei canali, oggi è la città dei cavalcavia. Corrono dappertutto, in ogni direzione, incrociandosi e intersecandosi e incasinando la vita di milioni di neopatentati che attraversano improvvisamente tutte e cinque le corsie perché si sono accorti
all'ultimo istante che la loro uscita è proprio quella che stanno superando. Sorgono a decine di metri di altezza, si allungano puntando dritto verso un palazzo che tanto avrà vita breve perché qui mica siamo a Napoli dove una tangenziale si ferma davanti a una catapecchia: qua se un edificio è dove non conviene che sia, tanto peggio per lui: le ruspe sono già dietro l'angolo.
Della comitiva vi ho già accennato. Se in un primo tempi mi era sembrata curiosa, ora è addirittura stupefacente. A parlarne sembra di raccontare una di quelle vecchie barzellette: "un italiano, un serbo e un afghano…". Ma la realtà è molto più complessa e merita di essere raccontata con calma…

venerdì 23 ottobre 2009

Una buffa comitiva

Sono in Cina. E' un viaggio bizzarro, organizzato da quel colosso dell'informazione che è Radio China International per premiare chi si è distinto nella promozione della cultura cinese e dello studio della lingua. Ovviamente sono qui per AgiChina24, ma la comitiva e incredibilmente eterogenea. Ci sono un politico ungherese e uno scrittore afghano; un manager francese e un giornalista malese. Per approfittare di ogni momento libero, mi sono riempito l'agenda di appuntamenti per AgiChina. Ognuno di noi è accompagnato da una giornalista di China Radio che parla la lingua.Stiamo partendo per Shanghai e il pullman che ci porta all'aeroporto sembra una specie di Nazioni Unite su ruote. Dobbiamo ancora prendere confidenza. Con questa esperienza, prima ancora che tra di noi.

mercoledì 7 ottobre 2009

Daje al trans!

L'intenzione era di dare una lezione ai due trans che ciondolavano per una strada centrale di Swansea, nel Galles. Cosi' due ventenni sbronzi, Sean Gardner e Jason Fender si sono avventati sulla coppia in hot pants rosa e calze a rete urlando insulti e menando le mani. Ignorando, pero', che le due 'vittime' erano 'cage fighters' che si erano acconciati per una festa in maschera. Così, seppure in tacchi a spillo e reggicalze, i due hanno reagito fuilmineamente all'aggressione e mollato una serie devastante di calci e pugni come prevede il loro sport: un mix di arti marziali senza alcuna regola. In un attimo Gardner e Fender s sono ritrovati per terra sotto una tempesta di colpi e solo quando i due lottatori hanno ritenuto che ne avessero avute abbastanza, Gardner e' riuscito a divincolarsi, ma nella fuga precipitosa e' andato a schiantarsi contro una cabina telefonica. Ai poliziotti che li hanno fermati hanno raccontato che prima di prendere botte dai due cage fighters erano stati menati per bene da un altro uomo in maschera: un Uomo Ragno che probabilmente andava alla stessa festa.

domenica 4 ottobre 2009

In Terra Consacrata finalista al Premio Alziator

La notizia è ancora fresca: In terra consacrata è nella terna finalista del Premio Alziator. Il 28 ottobre dovrà vedersela con Il guscio della tartaruga di Silvia Ronchey e con Gianfranco Manfredi
Riporto il lancio dell'Agi:

LIBRI: PREMIO ALZIATOR, ECCO I 12 FINALISTI
(AGI) - Cagliari, 3 ott.- Sono 12 i finalisti, tre per ciascuna delle quattro sezioni, che concorreranno al premio letterario "Francesco Alziator", promosso dal Comune di Cagliari con il contributo della Regione Sardegna, in programma il 28 ottobre al Teatro Lirico del capoluogo. La giuria, presieduta dallo scrittore Salvatore Niffoi, ha selezionato, tra le 252 opere in concorso, Ugo Barbara (giornalista dell'Agenzia Italia), Gianfranco Manfredi e Silvia Ronchey per la sezione Narrativa, Remo Bodei, Gianni Olla e Gianni Sirigu per la Saggistica, Viviana De Cecco, Stefania Mannu e Claudia Zorzi per la sezione Inediti giovani autori e Al-Asswani Ala, Doron Lizzie e Ashur Radwa per quella Speciale. Per ognuna delle sezioni Saggistica, Narrativa e Speciale e' previsto un premio per il primo classificato di 6 mila euro, mentre agli altri due finalisti andranno rispettivamente 1.000 euro, al pari del vincitore della sezione Inediti Giovani Autori. La terna dei dodici finalisti e' stata resa nota stamane in una conferenza stampa dal presidente della giuria assieme al sindaco Emilio Floris e al presidente del Comitato di gestione Maurizio Porcelli. Il Premio letterario, in questa edizione, ha registrato un incremento del 30% rispetto allo scorso anno del numero di opere presentate, oltre ad una partecipazione piu' ampia delle case editrici nazionali e regionali. Sia il Premio che il festival letterario sono stati finanziati con 120 mila euro di risorse comunali, mentre la Regione sponsorizza l'evento con uno stanziamento di 20 mila euro.

venerdì 2 ottobre 2009

Coffee Club Nespresso

Sono da qualche giorno l'orgoglioso proprietario di una macchina per il caffè Nespresso. Questo comporta il vantaggio di poter scegliere quando ne ho voglia tra una smodata quantità di miscele, gustarmi un buon caffè cremoso al punto giusto e avere in cucina al posto del vecchio casciabanco da venti chili una elegante Krups dal volume contenuto.
Ma comporta anche l'iscrizione al Nespresso Club. Già che esista un club di caffeinomani è buffo, ma va bene così: le boutique Nespresso (avete letto bene: boutique) sono dei posti accoglienti in cui, male che vada, si può gustare un buon caffè e, se si è in vena, si può fare un mutuo per non dover rinunciare a nessuna delle 19 (ma a volte sono di più, altre di meno) diverse miscele.
Quando ho comprato la mia Krups (regalo di mamma!) in via Cola di Rienzo ho fatto la coda. E questo è bizzarro, perché avevo letto di code per gli iPhone, per il cofanetto dei Beatles e per Harry Potter, ma mai per una macchina per il caffè e le sue colorate, raffinate, eleganti, costose cialde. Nei cinque minuti di attesa (tutto sommato sopportabili) ho dato una sbirciatina al mondo del quale stavo per entrare a far parte. E mi sono reso conto di una cosa: che il Nespresso è roba da fighetti. Quindi o io sono sempre stato un fighetto, o lo sono diventato o lo diventerò.
Ma mi consola il fatto di non aver ancora raggiunto l'aberrazione di spendere un patrimonio per le tazzine in vetro, il portatazzine, il portacialde, le bustine di zucchero personalizzate, i cucchiaini di design, lo strumento per il cappuccino e le bacchette brandizzate. Per adesso mi limito al caffè. Ed essendo un neofita, non ho ancora scelto la mia miscela giusta. Il Roma mi piace, ma non mi sembra abbastanza pieno; il Livanto mi gusta di più, ma mi sembra un po' leggero.
Ieri ho espresso le mie perplessità alla signorina puzza-sotto-al-naso della boutique Nespresso di piazza San Lorenzo in Lucina. Accanto alla sala in cui Franceschini parlava, una clientela identica alla sua si presentava al bancone chiedendo con matematica precisione dieci diversi tipi di miscele a botta. Una signora prima di me aveva speso 43 euro di blister, ma, per fare cifra tonda (giuro: ha detto proprio così) ne ha chiesti altri due, così ha sganciato il suo biglietto da 50 euro senza l'angoscia di portarsi dietro sette euro di resto.
Quando è venuto il mio turno, ho cercato di spiegarmi con puzza-sotto-al-naso, ma prima ancora che io avessi il tempo di aprire bocca, è scattato il meccanismo-greve. Si tratta di un automatismo che si mette in funzione ogni volta che mi trovo davanti a una situazione inadeguata. Mi spiego: se sono in un ricevimento in un'ambasciata, mi comporto da persona civile, andando ben oltre la mia scala di civiltà abituale perché questo impone l'etichetta. E se ti occupi di diplomazia e politica estera, devi stare al gioco. Ma se entro in un posto che vende caffè ma non è una torrefazione, bensì una boutique e la tipa dietro il bancone mi guarda come se avesse già sgamato che non ho intenzione di spendere più di 14 euro - pari a modesti 40 caffè - scatta il meccanismo-greve e non sono più in grado di esprimermi come l'etichetta del luogo converrebbe.
"E' che il Roma mi sembra mosciarello" dico dopo un po' che lei ha parlato di note acidule, rotodità sul palato e retrogusto fruttato o legnoso.
"Mosciarello?" ripete puzza-sotto-al-naso storcendo - per l'appunto - il naso.
"Sì... lento, inconsistente"
"Temo, signore, che lei stia confondendo il sapore con la consistenza"
"Può essere, ma io vorrei un caffè che si sente in bocca e mi dia anche una bella sveglia"
Altra smorfia di naso.
"Se cerca una nota di sottobosco autunnale..."
"No, io cerco un caffè. Buono, forte. E poi magari uno più leggero da prendere al pomeriggio tardi"
"Le faccio assaggiare alcune delle miscele che potrebbero incontrare i suoi gusti"
"E' che ho appena pranzato e il caffè l'ho già preso. Se ne bevo altri due mi viene la tachicardia"
Ennesima stortura di naso.
"Allora forse è meglio che venga un'altra volta, prima di aver preso il caffè".
Allora forse è meglio che... "Va bene, mi dia due blister di Arpeggio, uno di Livanto e uno di... cos'è questa capsula blu?"
"Una speciale miscela indiana che ha un retrogusto di..."
"Va bene, mi dia anche quella". E sbrighiamoci che devo andare a lavorare.
Nel frattempo un tizio accanto a me si è portato via una cassa di blister e ha sganciato 95 euro.
Esco con la mia bustina fighetta Nespresso e attraverso una folla eterogenea che aspetta che Franceschini parli o che smetta di parlare. E sto già pensando a quale miscela proverò per prima... forse quella indiana con retrogusto del Gange.
Ma puzza-sotto-al-naso non mi ha guastato l'umore: sono pur sempre un orgoglioso proprietario di una macchina Nespresso. Proprio come George Clooney.

giovedì 1 ottobre 2009

Un italiano, una brasiliana e una greca arrivano all'Onu...

La fila è sempre quella sbagliata. Alle poste come in banca, al supermercato come al benzinaio. Vale anche per le Nazioni Unite. Perché il grande, elegante e - per l'epoca - ultramoderno Palazzo di vetro uno potrebbe ancora immaginarselo come il il regno dell'utopia, dove tutto ciò che nel mondo non va invece funziona benissimo, non si fanno le file e ognuno, pur parlando la propria lingua, capisce cosa dice l'altro.
Potremmo ancora illuderci che sia così se presidenti su presidenti, dittatori dopo dittatori, non ci avessero spiegato mille volte che l'Onu è il regno dello spreco, dell'inefficienza, delle tattiche dilatorie. Ma basta molto meno che sessant'anni di conflitto mediorientale per far vacillare la fiducia nelle Nazioni Unite: è sufficiente far la fila per un'ora davanti al numero 108 di First Avenue per poi scoprire che gli accrediti per la stampa in realtà li consegnano al tendone bianco poco oltre l'ingresso, proprio quello davanti al quale si snoda una fila da un'altra ora buona.
L'unica consolazione è stata CK. Non Calvin Klein, ma Cleide e Kostantina, due giornaliste - una brasiliana, l'altra greca - che avendo sperimentato le code latinoamericane e mediterranee sapevano come rassegnarsi a una lunga attesa e ingannarla con le ciance.
Hanno impiegato un paio di secondi per capire che sono italiano. Non per l'accento - mi hanno assicurato - ma per il look. Credo fosse un complimento: non avevo la cravatta arancione su camicia nera degli spagnoli, non la t-shirt sdrucita sui pantaloni del completo di gabardine dei francesi e non la giacca due taglie troppo grande di chiunque si trovi a est di Berlino. Ma appena hanno accertato che ero italiano il discorso è andato rapido come un fulmine all'argomento hot del momento.
L'acquisto di Chrysler da parte di Fiat? No.
La tenuta del sistema bancario italiano di fronte alla più grave crisi finanziaria del secolo? No.
La fuga dei cervelli? No.
Le mignotte di Palazzo Grazioli? Sì.
"Ma come? Come" mi ha chiesto Cleide, "un popolo così civile, così raffinato, che tanto a fondo ha segnato la storia può essere caduto così in basso?"
"E come, come è possibile" ha rincarato la dose Kostantina, "che gli italiani non mandino a casa uno come il Cavaliere?"
Io ho obiettato che oltre le escort, le attricette, le veline, le presunte intercettazioni alle ministre c'è lo straordinario intervento in occasione del terremoto in Abruzzo; che in Italia c'è il diffuso senso di necessità di avere al timone qualcuno che sia in grado di prendere una decisione a fronte di una opposizione che non sa neppure che nome darsi, che c'è...
Poi mi mi sono fermato. Del terremoto, dell'inconsistenza dell'opposizione, della Fiat, delle banche, loro sapevano già. Ma erano i retroscena dell'affaire D'Addario che gli interessava. Forse per lo stesso motivo per cui - come ho letto tempo fa in un sondaggio - al suono della parola Kennedy la maggioranza degli americani pensa prima a Marilyn che canta tanti auguri Mr President, poi a Jackie che scatta verso i portabagagli della vettura presidenziale per raccattare un pezzo di cranio del marito e dopo, solo dopo, a cose come la crisi dei missili a Cuba, a frasi come Ich bin ein berliner o alla Baia dei Porci.
Perché forse il destino degli uomini di potere è di essere ricordati prima per le donne che hanno avuto (successe anche ad Antonio e Cleopatra, molto prima di Bill e Monica) che per la traccia che hanno lasciato. E se quella traccia profuma più di Chanel che di sudore, cordite e dolore, allora non ci sarà scampo.
Ma la ricetta non è nell'astinenza: nessuno ha mai attribuito un flirt a George W. Bush, eppure quanto avremmo preferito che avesse avuto la fissa per una bella mora piuttosto che la smania di marciare su Baghdad?