Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile

mercoledì 9 novembre 2011

Andiamo a prenderci il Premio Scerbanenco!

Cari amici, ci risiamo. Dopo aver portato 'Il Corruttore' e ‘In terra consacratain finale al Premio Scerbanenco, vi chiedo di aiutarmi a far vincere 'Le mani sugli occhi'. Chi ha partecipato al voto negli ultimi due anni sa che il meccanismo è un po' complesso, ma la partecipazione è molto più divertente e si può interagire con gli altri 'elettori' per convincerli che ‘Le mani sugli occhi’ è il candidato migliore. Tutto quello che serve sono un pc, una casella e-mail e un documento di identità a portata di mano. Le istruzioni sono qui: http://www.noirfest.com/iscriviti.asp ma fate in fretta: c'è tempo solo fino al 19 novembre.
Grazie a tutti!

domenica 11 settembre 2011

Undici Settembre

C'è voluto un po' di tempo prima che mi rendessi conto che l'11 settembre del 2001 avevo avuto una specie di privilegio. Avevo vissuto quella giornata e non ne ero stato un semplice spettatore. Credo che oggi nessuno possa dire in realtà di essere stato alla finestra a guardare mentre il mondo che conoscevamo andava in frantumi. Neppure il più cinico tra i cinici, neppure quelli che l'indomani con sulle labbra un mezzo sorrisetto da calcinculo dicevano "però, che botta per l'America", possono dire di non aver vissuto qualcosa dentro e non solo nello sguardo.
Però io quel giorno ero in redazione.
Dopo le stragi del '92 capitava di parlare della morte di Falcone e Borsellino e chiedere - o sentirsi chiedere - cosa si stava facendo quando la notizia era arrivata. Allora ero a casa e guardavo attonito la tv.
Ma l'11 settembre ero in redazione.
C'eravamo quasi tutti, in realtà: riuniti in assemblea per votare la fiducia al nuovo direttore. Fummo io e un collega della cronaca giudiziaria i primi ad accorgerci che qualcosa di grosso era successo: sul televisore che ci sovrastava mentre decidevamo se approfittare della pausa per andare a pranzo, Televideo proiettò una singola riga. Diceva: "un aereo si è schiantato contro una delle Torri Gemelle".
La voce si sparse in redazione in meno di un attimo e tutti i televisori si accesero sulla diretta della Cnn. Immagini surreali. "Non può essere vero" diceva qualcuno, "sembra un film". Il notiziario era chiuso, come sempre durante un'assemblea. "Forse dovremmo riaprire la rete" propose qualcuno. Ma c'era chi non era d'accordo: era un'assemblea importante, non si poteva sospendere solo per dare la notizia che un piccolo aereo (questo era quello che si sapeva in quel momento) aveva colpito un grattacielo.
Così stavamo con il naso per aria, domandandoci come fosse stato possibile che in una splendida giornata di sole come quella un pilota fosse stato così incompetente da andare a sbattere contro una torre di acciaio e vetro.
Poi accadde.
Lo vedemmo tutti: il secondo aereo che si schiantava contro la Torre Sud.
E fu il silenzio. Un silenzio che in redazione non ho più sentito. Il silenzio che segue gli eventi incredibili, le immagini che il nostro cervello si rifiuta di registrare come reali o anche solo come verosimili. Nessuno riusciva a dire niente. A fare niente.
La prima voce fu un urlo: "riaprite la rete!".
E in un attimo eravamo tutti ai computer. Non c'era una sola postazione libera: tutti tempestavano furiosamente sulla tastiera, armeggiavano con i mouse cercando di cavare qualche informazione dal web. Ma Internet era paralizzato dal traffico. I miei amici a New York non rispondevano: era impossibile prendere la linea. Persino le agenzie internazionali sembravano in preda al terrore: le stampanti di Reuters ed Efe non vomitavano più la solita valanga di notizie.
Eppure cercavamo dappertutto: negli archivi cartacei per trovare una scheda sul World Trade Center; un riepilogo sul primo attacco del '93 alle Torri Gemelle; un profilo dei principali attentati terroristici. Fu allora che un collega mi si avvicinò con una cartellina azzurra. Sopra c'era scritto: "Al Qaeda". "Sono stati questi qui" mi disse, "c'hanno già provato una volta". Fino a quel momento nessuno aveva neppure pensato a Bin Laden.
Lavoravamo sull'onda dell'adrenalina, tutti. Lavorammo senza sosta: nessuno voleva tornare a casa a riposare per affrontare un turno di notte che era inevitabile. Poi l'adrenalina lasciò il posto alla paura, man mano che le notizie si accavallavano: l'aereo sul Pentagono; quello precipitato in Pennsylvania... Ma anche tanti falsi allarmi, come l'autobomba al Dipartimento di Stato o l'attentato alla Sears Tower e gli attacchi su Los Angeles. Notizie rimbalzate da redazioni in preda al panico e smentite dopo pochi minuti, ma che alimentavano la paura e la sensazione che qualcosa di ancora più terribile dovesse accadere.
Tornai a casa alle quattro del mattino, durante un'offensiva dell'Alleanza del Nord su Kabul. Una coincidenza che fece pensare a un attacco americano. Due giorni prima il comandante Massoud, il Leone del Panshir, era stato ucciso in un attentato. Il mio capo di allora era rimasto più colpito di quanto mi aspettassi. "Hanno ammazzato Massoud" aveva detto, "si sta preparando qualche casino vero". Nessuno immaginava quanto avesse ragione.
A casa mia dormivano tutti. Sonni che apparivano quieti.
Io mi poggiai sul bordo del letto.
E piansi.

martedì 7 giugno 2011

A proposito di Harry

Avrei voluto, un giorno, pubblicare su questo blog una foto alla quale tenevo molto. Ritraeva me e un arzillo vecchietto sul portico di una casa di Brooklyn. Intorno a noi la mia famiglia e la figlia dell'uomo, tutti sorridenti, contenti di aver finalmente colto un'occasione attesa da tempo.
Il vecchietto al centro è più che un vecchietto. E' Harry Bernstein: ha compiuto da qualche mese 101 anni ed è più lucido che mai. Poi ci sono i miei figli che hanno letteralmente divorato il suo romanzo Il muro invisibile e sua figlia Adreanne.
Non potrò mai pubblicare quella foto, perché nessuno potrà mai scattarla. Harry se n'è andato sabato scorso, pochi giorni dopo aver festeggiato il suo 101mo compleanno, meno di tre mesi prima che io riuscissi a mantenere la promessa di andarlo a trovare.
Eppure quella foto ce l'ho nitida nella mente come se a inquadrare e a scattare fossi stato io stesso. Io che - potenza delle illusioni o forse solo dell'autoscatto - sono anche dall'altra parte dell'obiettivo e sorrido, una mano poggiata sulla spalla di Harry.
Mio figlio ha la stessa faccia divertita che ha in una foto fatta a gennaio sulla metropolitana di Parigi. Era perennemente immerso nella lettura del Muro e coglieva ogni occasione per tirarlo fuori dallo zaino e perdersi in quelle pagine: in fila per fare i biglietti a La Villette, sul metro che ci portava a Eurodisney; appena tornati in albergo, stremati, la sera. Gli chiesi di guardarmi e lui sorrise in un modo che piacque molto a Harry, quando gli mandai la foto, con il suo libro bene in evidenza tra le mani.
Era stata mia figlia a suggerirgli di leggere il Muro. "E triste in modo devastante" gli aveva detto, "ma ti piacerà". Poi io e lei avevamo ingaggiato una curiosa caccia a Harry sul web. Eravamo ansiosi di dirgli quanto ci erano piaciuti i suoi libri. Io ero stato il primo a scoprirli, quando Piemme mi aveva chiesto di presentare questo esordiente di 97 anni al Premio Bancarella. Poi era toccato a mia moglie che lo aveva passato ai suoi genitori, poi ai miei, poi...
Non c'è nessuno in famiglia che non abbia letto - e amato - Harry Bernstein e la sua storia. Per questo sarò sempre grato a Bruce Frankel di avermi messo in contatto con lui e ad Harry per avermi dato la sua amicizia. E per avere avuto il tempo di scambiare divertenti e commoventi mail con i miei figli, con lo spirito di un ultranonno molto lontano piuttosto che quello di uno scrittore di successo.
Mancava solo quella foto, anche se tutto era ormai pronto.
Un foto che avrei amato.

domenica 1 maggio 2011

Si dice in giro...

Chi segue questo blog sa che sono un fedele follower di alcuni blogger di genere e non, come l'Angolo Nero, Corpi Freddi e Booksblog . O che non perdo mai l'appuntamento con il commento di Alfonso76.com alla classifica dei libri più venduti. Per questo leggere la sua recensione di 'Le mani sugli occhi' è stata una bella emozione.

Sulla mia pagina di Facebook avete già trovato i link a quello che Thrillerpages e LibriNews hanno scritto nei primi giorni dell'uscita del mio nuovo romanzo, alla bella recensione di Maurizio Testa su aNobii e all'intervista di Graziano Rossi su La Ghigliottina.

sabato 30 aprile 2011

Ecco cosa ci mancava: i TQ!

Sentivo la mancanza di qualcosa. Sentivo che intorno a me non si coagulava qualcosa, qualcosa come un MOVIMENTO capace di produrre un bel MANIFESTO pieno di RIVENDICAZIONI. Ora per fortuna c’è. Leggo su Repubblica (30 aprile pag. 42 R2 Libri) che è nato TQ, acronimo di Trenta/Quarantenni: scrittori, critici ed editori (sic) ansiosi di reclamare il proprio ruolo nella vita intellettuale nel Paese.

Ne fanno parte alcuni che conosco e apprezzo come Giorgio Vasta, altri che ho appena incrociato e non apprezzo neppure un po’ come La Salma. Nessuno di loro ha grandi performance da classifica (per quello che possono valere le classifiche) al loro attivo, ma tutti loro sono indubbiamente scrittori veri. Scrittori che – per loro stessa ammissione – vivono di scrittura.

Ma non vivono abbastanza bene, a quanto sembra, perché dalle citazioni raccolte dal giornalista Dario Pappalardo si capisce (laddove non è detto senza troppi giri di parole) che quello che angustia di più i TQ è il pericolo di non arrivare a fine mese. Ed è sintomatico che tra le loro proposte più ardite ci sia il ripristino in Rai di trasmissioni come Pickwick, che Baricco conduceva all’inizio degli anni ’90 e di cui io per primo non mi perdevo una puntata.

Giusto, giustissimo. E poi? Poco altro, se non affermazioni come “ci siamo talmente alfabetizzati sul versante diagnostico…” e “recuperare il diritto a scolpire lo spazio sociale….” che già da sole puzzano di cantina umida e prudono come un maglione a collo alto sotto una giacca di velluto a coste. O piagnistei tipo “la nostra è una generazione di traumatizzati senza trauma”.

E’ strano, perché in teoria io sarei un TQ dalla testa ai piedi: ho poco più di 40 anni e sono uno scrittore, eppure non mi sento affatto traumatizzato, non voglio scolpire alcuno spazio sociale e non credo di essere scientemente in grado di diagnosticare null’altro che un raffreddore a uno dei miei figli. Quindi cosa c’è che non va?

Forse la differenza non è generazionale, ma tra scrittori che vogliono solo raccontare storie e scrittori che ambiscono a vestire i panni degli intellettuali. Con l’unico scopo – è il mio amaro sospetto – di andare a occupare quelle caselle di maître-a-penser della cultura italiana che presto o tardi gli intellettuali della generazione dei babyboomer si decideranno a lasciare (per loro volontà o per sorte naturale) e che magari possano garantirgli prebende vitalizie. O, peggio ancora, per fare muro contro i VC, i Venti/Cinquantenni che conquistano la classifica con libri godibili, leggibili e condivisibili dal pubblico. Opere popolari né più ne meno come lo erano quelle di gente come Hugo, Dickens, Twain, Tolstoj. E se le cose stanno così, io, da Trenta/Quarantenne dico che non ho bisogno di alcun MOVIMENTO o MANIFESTO che RIVENDICHI cose che dovrei guadagnarmi da solo, lavorando sodo e senza aspettare che qualcuno si faccia da parte per lasciarmi spazio.

venerdì 22 aprile 2011

Come deve essere un libraio?

Come dovrebbe essere un libraio? Cortese innanzitutto, perché il suo è un mestiere difficile: deve vendere qualcosa che non ha mai avuto troppa fortuna, a eccezione di alcuni casi clamorosi. Il libro è di qualche secolo più vecchio dell’mp3, del cd e del vinile, ma ho il sospetto che se si mette insieme la musica che è stata venduta negli ultimi cento anni, il volume di libri venduto negli ultimi 600 anni impallidisce. E con il cinema come la mettiamo? C’è gente in giro che anche se non necessariamente analfabeta può dire (quando non se ne vanta) di non avere mai letto un libro. Quanti possono dire di non avere mai visto un film? Forse solo il teatro ha più difficoltà a conquistare pubblico, almeno da quando sono nati nell’ordine la radio, la tv e YouTube.

E poi, come deve essere un libraio? Simpatico? Non necessariamente. La voglia di apparire simpatico scivola facilmente nella molestia, specie con il difficile pubblico occasionale di una libreria. E allora? Intuitivo. Deve saper cogliere al volo che tipo è il suo cliente, anzi: il lettore che varca la soglia della sua libreria. Perché c’è la buona possibilità che se qualcuno entra in una libreria non sia necessariamente sotto Natale e non solo per comprare un libro di Bruno Vespa. Il libraio deve sapere cogliere al volo quel qualcosa nello sguardo, nei movimenti, forse persino nell’abbigliamento del cliente – o del potenziale cliente – che gli permetta di dare il consiglio giusto, ma ancora prima di capire se il lettore è alla ricerca di un consiglio.


Perché perdersi tra centinaia, migliaia di titoli è facile e spesso serve un mentore che faccia capire quale può essere la scelta giusta. Come insegnano nelle scuole di sceneggiatura, il mentore porta il lettore ad accettare quella chiamata all’avventura che è la lettura di un libro. Un’avventura che può essere così disastrosa da essere abbandonata dopo poche pagine o così travolgente da spingere alle lacrime: di gioia, di nostalgia o di dolore.


Se il libraio/mentore riesce a dare il consiglio giusto, il lettore tornerà per vivere un’altra avventura. Altrimenti si perderà altrove, magari in un mega-bookstore dove i titoli sono decine di migliaia, ma non c’è lo spazio per sedersi e sfogliarne neppure uno. O dove non ci sono librai, ma commessi così impreparati da far venire il sospetto che il loro sogno sia vendere mortadella e solo accidentalmente siano finiti al banco dei libri. O così sgarbati da spingere a immaginarli nella loro camera in affitto, davanti a una pagina bianca mentre cercano l’incipt giusto per il romanzo che non scriveranno mai.

martedì 19 aprile 2011

Difendere il libro nazionale!

Fino a qualche anno fa, prima che l’incresciosa parcellizzazione della proprietà delle sale cinematografiche fosse risolta con uno sano duopolio che ha ridotto di fatto a due i protagonisti della distribuzione, in Italia capitava ancora di dibattere su un tema un po’ peregrino: la protezione del prodotto cinematografico nazionale.

Oggi quel dibattito si è spento: nessuno pensa più di fare come i francesi – di imporre cioè una quota di produzione nazionale a ogni distributore – e si può allegramente riservare al cinema italiano una porzione di sale nelle quali però trova spazio solo e soltanto la commedia. O il film adolescenziale. O qualunque cosa il volubile e lunatico mercato decida che va bene in quel momento. Ho maturato il sospetto che una realtà in crisi finisce per diventare bulimica.

L’esempio del cinema è calzante: la crisi delle sale crea un ingolfamento intorno a una manciata di titoli, così alcune emerite boiate vengono distribuite in 6-700 copie perché nessuno (ma proprio nessuno) possa dire: “non sono riuscito a vederlo perché nella multisala vicino a casa non lo proiettavano”. E torniamo così al monopolio dei pochi: titoli e distributori. Nelle librerie succede l’opposto, almeno per quanto riguarda i titoli.

Mi sono sempre battuto e sempre mi batterò per le librerie indipendenti perché solo un libraio vero, di quelli che leggono i libri che vendono, può consigliare al lettore giusto il libro giusto. Attenzione: ho detto lettore e non cliente, perché il rapporto tra chi vende un libro e chi lo legge non potrà mai essere simile a quello di chi vende una fetta di mortadella e chi se la mangia.

E invece oggi quando si entra in un negozio delle grandi catene, è come entrare in un ipermercato di Long Island: file su file su file di prodotti (qui sì non più libri, ma prodotti) che disorientano il lettore che non sia entrato con un’idea già ben definita. E a ben guardare si scopre che una schiacciante maggioranza di questi titoli sono stranieri. C’è di tutto – non soltanto statunitensi come piacerebbe credere ad alcuni apocalittici – ma francesi, britannici, neozelandesi, africani...

Un lettore è indotto a pensare che se un editore lo ha pubblicato è perché ci crede davvero. Perché quel titolo lo ha tenuto d’occhio a lungo, meditato, valutato. Ha cercato il traduttore adatto e ne ha curato il lavoro; ha contatti stretti con l’autore e con i suoi agenti, li informa dell’andamento delle vendite, li coinvolge nel lancio per far conoscere al lettore italiano un autore senegalese (o gallese o irlandese o islandese) semisconosciuto in patria.

Nulla di tutto questo, almeno quasi mai. Nella maggior parte dei casi i titoli vengono acquistati alle fiere internazionali con le stesse dinamiche con cui una fabbrica di indumenti (non voglio dire un’azienda di moda) acquisterebbe stoffe dai rappresentanti dei produttori locali. Quanto volete che costi un titolo così? E’ un affare quasi mai in perdita, perché il romanzo islandese viene acquistato insieme a quello senegalese e a quello gallese a una cifra spesso irrisoria, viene stampato e lanciato sul mercato nel giro di sei mesi. Nulla a che vedere con il faticoso lavoro di preparazione e lancio di un autore italiano che deve essere innanzitutto pagato in maniera adeguata (o quantomeno onesta), che ha bisogno di un editor che lo segua nelle fasi della scrittura (altro costo) e che poi non mancherà di lamentarsi della distribuzione, dell’ufficio stampa, della promozione, inseguirà attimi di vanagloria in tv e sognerà il divano di ‘Parla con me’.

Tutte spese, fatica, impegno che lo scrittore senegalese e quello statunitense non richiedono. Per l’autore americano che in patria ha venduto qualche centinaio di migliaio di copie , pubblicare in Italia è come per Paolo Giordano essere tradotto in urdu: un dettaglio in una storia di grande successo, ma nulla di più. Per un autore senegalese arrivare nelle librerie italiane è solo una tappa nella conquista di mercati molto più succulenti, come quello tedesco, francese o americano.

Scommettere su un titolo straniero, insomma, è molto più semplice e a buon mercato. In caso di fallimento si ammortizzano i costi con grande facilità e in caso di successo si guadagna in modo esponenziale e si conquista un posto nel paradiso dei talent-scout.
E nella marea di autori internazionali da una botta e via (di quelli che non torneranno mai più sugli scaffali delle Feltrinelli e delle Mondadori perché non hanno superato le cinquecento copie di venduto), gli italiani soffocano e scompaiono, si contendono le attenzioni degli uffici stampa e dei giornali e quella un po’ provinciale di pagine culturali sempre più attente a quello che succede ovunque tranne che in casa.

Non ci sono colpe per questo fenomeno. Né colpevoli. “E’ la globalizzazione, bellezza” mi ha detto una volta un imprenditore italiano che ha delocalizzato in Cina la produzione di tute da sci. E l‘unica cosa che gli autori italiani possono fare è raccogliere la sfida e fare meglio degli altri, perché solo puntando sulla qualità si riesce a riconquistare una fetta di mercato che altrimenti è destinata a essere sempre più parcellizzata e sbriciolata. Una partita difficile, da giocare libreria per libreria. A condizione, però, che le case editrici non restino a bordo-campo a sorseggiare caffè Borghetti, aspettando di vedere come va a finire.

lunedì 11 aprile 2011

Rimorchiare in stile ER


Questa va raccontata subito! Sono sul treno, di ritorno verso casa. Un passeggero ubriaco come una scimmia si sente male e cade sul pavimento. Abbiamo appena superato la fermata 'Gemelli' e ovviamente sono saliti alcuni studenti di medicina. Una ragazza si prodiga nei soccorsi, chiamiamo il capotreno e il 118. Fermi in attesa alla stazione, il mio vicino di posto, un tipo più o meno della stessa età della giovane dottoressa, attacca bottone con lei. Indovinate come va a finire: mentre aspettiamo con 28 gradi all'ombra che arrivi un'ambulanza, i due si organizzano per scendere fra un paio di fermate e farsi un aperitivo. Se poi magari si sposano cosa racconteranno del loro primo incontro? ;)

domenica 3 aprile 2011

Vi regalo un racconto per conoscere meglio Tanlongo


E' stato bello vedere quanta curiosità ha solleticato il mio nuovo romanzo, 'Le mani sugli occhi'. Ed è stato fantastico rispondere alle vostre domande nell'intervista in diretta sulla fan page di Piemme su Facebook. Alcuni, in diverse occasioni, mi hanno chiesto quanto 'Le mani sugli occhi' sia legato al 'Corruttore'. Quanto, cioè, sia godibile pur senza aver letto il prequel.


E' la stessa domanda che ho posto alla mia editor quando le ho consegnato la prima stesura di 'Le mani sugli occhi'. E sono stato felice della sua risposta: "assolutamente". Ho lavorato su questo nuovo romanzo stando attento a non farlo essere un semplice sequel. Non volevo che fosse l'appendice di una storia che ha avuto davvero un bel successo e mi ha dato grandi soddisfazioni, ma un romanzo forte, potente, che vivesse di vita propria e, casomai, spingesse il lettore a scoprire di più. Ne ho già scritto QUI.


Vittorio Tanlongo, il protagonista di entrambi i romanzi, ne esce come un personaggio ancora più complesso, più sfaccettato. Ed è normale che qualcuno mi abbia chiesto se ci sarà un terzo episodio: una storia che riprenda la storia di Tanlongo lì dove l'hanno lasciata le pagine di 'Le mani sugli occhi'. Questo non posso ancora dirlo, anche se devo ammettere che già le dita mi prudono dalla voglia di andare avanti con questo personaggio e di scoprire io stesso, per primo, dove mi porterà.


Intanto però c'è una storia che posso già regalarvi. Voglio raccontarvi da dove viene Vittorio Tanlongo. Per questo ho scritto un racconto in formato e-book che potete scaricare gratuitamente QUI dalla mia pagina sul sito della Piemme. Potete leggerlo sul vostro iPad, iPhone o su qualunque e-book reader. Oppure potete scaricare la versione in pdf e leggervelo al computer o stamparlo. Insieme avrete le prime venti pagine de 'Le mani sugli occhi': un assaggio per invogliarvi a seguire ancora oltre Vittorio Tanlongo. Buona lettura!

domenica 20 marzo 2011

Signore e signori, il corruttore è tornato

Vittorio Tanlongo è tornato. Sono passati tre anni dal Corruttore e l'idea di lavorare a un sequel è stata naturale quanto la nascita stessa di questo personaggio. E' una prima volta: nessuno degli altri miei romanzi è pensato per avere un seguito, ma la forza di Tanlongo ha quasi reclamato in questi anni di tornare sulla scena. E a uno come lui - chi lo conosce lo sa - non è facile dire di no.
Il tempo che è passato per noi è passato anche per lui e confesso che è stato bello ritrovarlo, come una vecchia conoscenza che per pudore non definisco un amico. Perchè avere un amico come Tanlongo può fare comodo - molto comodo - ma è un privilegio che ha un prezzo molto alto.
Tanlongo lo sa bene, ma non ha mai immaginato che qualcuno, presto o tardi, potesse presentarsi a chiedere il conto a lui.
E' così che lo ritroviamo: dopo quello che è successo a Palermo, dopo l'incontro con Ruggero Pietrasanta, ha cercato di sparire per il mondo; di dimenticare e farsi dimenticare. Ma non è stato facile come aveva creduto: il vento che ha seminato ha generato tempesta. Una tempesta che ora soffia impetuosa su di lui e sulla sua famiglia. E che minaccia di spazzar via tutto quello che ha costruito. O che ha creduto di costruire.
Nel mio nuovo romanzo, "Le mani sugli occhi", Vittorio Tanlongo è di nuovo protagonista.
Lo troverete in libreria da martedì 29 marzo.
Intanto godetevi il booktrailer...

domenica 6 marzo 2011

Come una vecchia Vespa

Anni fa, molti anni fa, partii per gli Stati Uniti senza avere ben chiaro se e quando sarei tornato. Lasciai la mia Vespa PX 125 del 1980 nel parcheggio all'aperto della redazione e tanti saluti. Tornai dopo alcuni mesi. La Vespa era ancora là: la sella impolverata e sul poggiapiedi era cresciuta l'erba. Ero sconsolato: non si sarebbe mai rimessa in moto. Eppure tentai lo stesso: infilai la chiave, girai e diedi un colpo secco al pedale dell'accensione. Tossicchiò, borbottò e tacque, ma mi fece capire che si era svegliata. Sorrisi, chiusi l'aria, diedi un altro colpo secco. E lei mi fece sentire subito che poteva pure avere la polvere sulla sella e l'erba sulla pedana, ma era una Vespa old style e ci voleva ben altro per metterla fuori gioco. Fece più fumo di una Campagnola Fiat ingolfata, ma si rimise in moto. Eravamo entrambi pronti a tornare sulla strada.

Questo blog è rimasto in silenzio per cinque mesi. Sono stati cinque mesi intensi di scrittura e rilettura. Cinque mesi in cui, al termine di ogni giornata, pensavo che forse era opportuno aggiornare i lettori del mio blog su quello che stavo combinando. Ma di opportuno nella scrittura non deve esserci nulla: se uno ha voglia e tempo di raccontare qualcosa lo fa e basta, altrimenti diventa un'ossessione o una pietosa ostinazione.

Molte delle energie che ho speso in questi mesi sono nel nuovo romanzo. E' stata un'esperienza bella e intensa, forse più bella e intensa del solito. Ne sono venuto fuori un po' spompato, con una gran voglia di leggere più che di scrivere. A ogni passo, però, mi imbatto in storie che chiedono di essere raccontate. E, un po' come Ulisse, torno a desiderare di dispiegare le vele.