Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile

giovedì 24 luglio 2008

Ancora coincidenze

Ancora coincidenze. Non so se è perché più ci faccio caso, più ne conto, ma alcune sono davvero sorprendenti. L'ultima è di oggi pomeriggio.
Posso vantare l'amicizia di Luigi Civerchia, uno dei più straordinari paesaggisti della scuola romana, ma soprattutto un galantuomo. Il che, tra gli artisti, non è una cosa così scontata. Ne ho conosciuti di ombrosi, di depressi, di esaltati e di insopportabilmente tronfi, ma mai - fatta eccezione per Carla Accardi - una persona solare e serena come Gigi Civerchia. Ogni minuto passato con Gigi è un tesoro accumulato nell'anima. I suoi racconti dei tempi di via Margutta, dell'amicizia con Federico Fellini, della straordinaria galleria di personaggi che passava per il suo studio sono come un meraviglioso film a episodi, in cui grandi personaggi sono capaci di vivere una vita di piccoli eventi. Raccontati da Gigi assumono i contorni della favola, del mito. E tutti si concludono con il suo sorriso che sembra voler dire "così è la vita".
Oggi sono andato a trovarlo. Prima di partire per le vacanze ho voluto salutarlo: so che probabilmente non ci rivedremo prima di settembre, a meno che non riesca a mantenere fede alla buona intenzione di andare alla mostra che la Libreria Sovilla di Cortina dedica ai suoi ritratti.
Gli ho raccontato dell'intervista che ho fatto a Carla Accardi più di un anno fa e dello straordinario incontro a Venezia con Fabrizio Plessi. Mi ha guardato incuriosito: quel nome non gli diceva niente. Così mi sono attardato a descrivergli questo creatore di illusioni capace di combinare acqua e fuoco con milioni di pixel; di generare incendi, allagamenti, vulcani e fiumi solo con l'elettronica. Gigi voleva sapere sempre di più e io gli raccontavo dello studio di Plessi alla Giudecca, della nostra lunga conversazione in una Venezia meravigliosamente inondata dal sole. Della ironia e della saggezza che lo spingono a non prendersi troppo sul serio anche quando la Bmw è disposta a sborsare cifre stratosferiche per una sua opera.
"Deve essere un tipo interessante, mi piacerebbe incontrarlo" ha detto Gigi, sempre con quel suo sorriso.
Era il momento di salutarci. Non mi lascia mai andar via a mani vuote e questa volta mi ha voluto regalare un paio dei suoi celebri ritratti: pochi essenziali tratti di inchiostro a gel accompagnati da pennarello. Li fa dappertutto: sulle pagine dei libri, sulle cartoline, sui programmi dei concerti, sugli inviti alle mostre. Quelli che mi ha regalato sono un Luciano Minguzzi e un Alexander Calder tratteggiati su un elegante invito, di quelli grandi, per le "mostre-evento". L'immagine riprodotta mi era familiare e quando ho aperto il pieghevole ancora una volta sono rimasto senza parole.
Era l'invito all'inaugurazione della mostra 'Videoland' di Fabrizio Plessi del 30 marzo 2006 a Bologna. L'artista, si leggeva, sarebbe stato presente. Gigi aveva ricevuto quell'invito, non era potuto andare e presto aveva dimenticato il nome dell'artista. Ma quella carta era destinata a ospitare due suoi ritratti. E due anni più tardi a finire tra le mie mani mentre gli parlavo di un artista che lui non conosceva e che però era in mezzo a noi.
"E' una coincidenza straordinaria" ho detto, ripensando al Caffè degli Specchi.
Gigi mi ha guardato e mi ha sorriso. Così è la vita.

sabato 19 luglio 2008

Cercando, cercando...

Non ho mai parlato su queste pagine della presentazione alla Fiera del Libro di Torino con Luciano Violante. Mea culpa, perchè ho avuto la fortuna di essere ospite nell'ultimo giorno, quello in cui i padiglioni sono affollati da torinesi di ogni età. Soprattutto giovanissimi.
Questa volta niente autocelebrazione: cedo la parola ad Antonio Sanfrancesco che per il sito dell'Ifg (Istituto per la Formazione al Giornalismo) di Milano ha raccontato qui cosa è successo.

Aggiornata la rassegna stampa

La rassegna stampa sul sito www.ugobarbara.it è stata aggiornata. Ora ci sono gli articoli pubblicati dopo l'uscita del romanzo e tra questi quello di Giovanni Pacchiano sul Sole 24Ore e di Marcello Benfante su Repubblica. Oltre a quelli comparsi su Liberazione, La provincia, La Sicilia, Messaggero Veneto...
Nella galleria fotografica invece ho aggiunto le immagini delle presentazioni a Roma e Palermo.

venerdì 18 luglio 2008

La testata di Ingrid

Bisogna dire la verità: di Ingrid Betancourt eravamo tutti un po’ stufi. Prima che la liberassero, intendo dire. Dopo tanti anni di falsi allarmi, false speranze, voci di malattie, appelli e fasulle mediazioni targate Hugo Chavez non ne potevamo davvero più. In qualunque redazione esteri di qualunque giornale – a eccezione forse di Avvenire, il Manifesto e Liberazione cui va tutta la mia ammirazione per la tenacia dimostrata –nessuno credeva più che la senatrice colombiana sarebbe tornata viva. E se si parlava di una visita in Italia di qualche mamma, sorella o figlia c’era sempre qualcuno che sbuffava un Uffa, ancora!
Poi è successo qualcosa di simile a un miracolo: la Betancourt è tornata libera e senza che fosse necessario sparare un solo colpo. Fantastico! Entusiasmo generale; noi dell’Agi abbiamo dato per primi la notizia e quindi eravamo particolarmente gasati. Viva Ingrid! Viva il glorioso esercito della Colombia (anche se viola la Convenzione di Ginevra usando il simbolo della Croce Rossa per un’operazione militare).
Tutti quelli che un tempo si annoiavano a scrivere dell’ennesimo appello di mamma/sorella/figlia ora tempestavano la tastiera pieni di voglia di fare. Tutti lì a inventarsi una scheda da buttare in rete per raccontare al meglio la vicenda. “Serve una la cronologia del sequestro” si urlava. “Chi fa la biografia della Betancourt?” si rispondeva. “Manca un profilo delle Farc” strillavano i capiredattori. “Chi sa ricostruire la dinamica della liberazione?” chiedeva qualcuno, tanto per contribuire a seminare il panico.
Poi, come sempre accade, anche questa è passata. Con cappello e gilet militare la Betancourt ha improvvisato una conferenza stampa, ha maledetto i suoi carcerieri e ringraziato la Madonna e l’esercito. E tutti abbiamo cominciato a sperare che, se Dio vuole, della storia delle Farc si è finalmente cominciato a scrivere il capitolo finale.
Ma in realtà non è finita lì. Perché invece di godersi la prole ritrovata e un po’ di meritato riposo, la senatrice ha cominciato a parlareparlareparlare. Come darle torto del resto? Per sua stessa ammissione le conversazioni con i guerriglieri erano aberranti e in tutte quelle ore passate a non far nulla tonnellate di idee devono esserle frullate nella mente. E’ giusto dar loro sfogo.
E noi lì a scrivere, attoniti testimoni della mutazione di questa donna, che ricordavamo radical-sciroccata e che ci siamo trovati a paragonare a Nelson Mandela. A essere celebrata come la speranza di riconciliazione di un Paese dilaniato da una guerra civile interminabile. E ci abbiamo creduto un po’ anche noi, pure se qualche atteggiamento della ‘nuova’ Ingrid ci lasciava un po’ perplessi.
Fino alla testata.
Cito testualmente: «Ho adorato la testata di Zidane a Materazzi, credo che anch'io avrei fatto lo stesso. E me la sono presa con quelli che lo hanno criticato».
Ora le questioni sono due: o lo spin-doctor della Betancourt era andato a dormire e l’aveva lasciata libera di dichiarare tutto quello che le passava per la testa o questa è la vera, nuova Betancourt con cui dobbiamo avere a che fare. Viene il dubbio che affidare le proprie speranze di riconciliazione a qualcuno che giustifica e ‘adora’ la vendetta a testate delle offese ai propri familiari non sia proprio la mossa giusta.
Ma forse è ancora presto per giudicare. Forse lo shock di tornare in libertà dopo sei anni non si è ancora dissolto e magari dopo otto giorni si può giustificare una sparata di questo calibro.
Certo è che buona parte della solidarietà che la Betancourt si era conquistata anche in Italia si è dissolta nel volger di una battuta infelice; perché se la sorella di Zidane non si tocca, neppure con la Coppa del Mondo si può scherzare più di tanto.
Ammesso che la nuova Ingrid stesse scherzando.

lunedì 14 luglio 2008

Intervista a Radio24

Ancora un po' di sana autocelebrazione. Chi si è perso la mia intervista a Radio24, può riascoltarla qui.

venerdì 11 luglio 2008

E sono soddisfazioni! (parte seconda)

Sono stato ospite di Fahreneit. Credo che nessuna trasmissione tv o radio sui libri in Italia dia altrettanta soddisfazione a uno scrittore. E non soltanto perchè è il programma sull'argomento più ascoltato, ma perchè chi sta dall'altra parte a parlare con te del tuo libro lo fa solo dopo averlo letto davvero. Con un'attenzione che non è comune. E' stato bello stare lì a parlare non solo della trama del Corruttore , ma anche della scrittura, dei suoi segreti e delle sue magie. Per chi volesse (ri)ascoltare la chiacchierata, può farlo qui.
Intanto ho rivevuto una richiesta da Londra: un'insegnante dell'University College London mi ha chiesto di poter utilizzare estratti dal Corruttore per scopi didattici. Hanno già usato l'intervista a Fahreneit per un esercizio di ascolto.
E sono soddisfazioni!

Che bella figura!

Siamo di nuovo sulla Volvo di Husni. Gli ammortizzatori cigolano penosamente a ogni curva mentre ci avviamo verso la Corniche. La ringhiera d’acciaio luccica come una sfilata di spade nel tramonto beirutino e la gente comincia ad affollare il lungomare. C’è di tutto: famigliole sui pattini, gay che sculettano impettiti, ipermuscolosi pluritatuati che corrono con l’iPod nelle orecchie. Ma soprattutto ci sono loro: le ragazze di Beirut, tanto belle e consapevoli di esserlo che sembrano calcare ogni passo sui tacchi vertiginosi per sfidare gli anatemi di Hezbollah.
“Questa città è piena di figa” dico in italiano, perché solo Lucio mi capisca.
Ma il mio collega, che evidentemente non è interessato all’argomento, mi rimbrotta un po’ seccato: non è il luogo né il momento.
Ma Husni mi rivolge un sorriso. “Conosco quella parola” ammicca, “state parlando di ragazze”
Che bella figura! Inutile cercare di negare: meglio buttarla sullo scherzo “Io vorrei parlare di ragazze, ma il mio collega preferisce parlare di politica”
Husni fa la faccia un po’ così e sbircia nello specchietto, alla ricerca dello sguardo di Lucio.
“Allora” gli chiede, “vuoi sapere come la penso sulla questione palestinese?”
Lucio sembra preso in contropiede. Si era ripromesso di non invischiarsi in discussioni politiche nel timore di urtare la sensibilità di qualcuno, ma ora è Husni che lo tira dentro e non può sottrarsi. Gli sembrerebbe di fare una scortesia e di offenderlo!
Borbotta qualcosa, ma è Imad, il tesoriere di al Jana, a prendere al volo la parola. Lui crede nella soluzione a due Stati. Non vede l’ora che Olmert e Abu Mazen si mettano d’accordo per decidere i confini e dare all’Anp la dignità di una nazione. Ma Husni lo interrompe. “Sta parlando per sé” ci avverte, “questo non è la mia opinione né quella della maggioranza della popolazione palestinese. Nessuno crede davvero alla soluzione di due Stati in cui uno ha contiguità territoriale e risorse naturali e l’altro è una specie di Bantustan diffuso a macchia di leopardo”
Sono stupito di incontrare un palestinese che non vuole uno stato palestinese. Allora qual è la soluzione? Gli chiedo.
Husni solleva le mani dal volante, ma la vecchia Volvo che pesa due tonnellate e non sa neppure cosa sia un servosterzo va dritta per la sua strada. “Non c’è soluzione. Non ora, almeno” dice, “l’unica cosa che possiamo fare è cessare i colloqui, arrenderci, dichiararci popolazione sotto occupazione e chiedere la protezione delle Nazioni Unite. Voglio vedere come faranno gli israeliani a penderci impunemente a cannonate con i caschi blu di mezzo”. E’ la prima volta che sento suggerire una soluzione simile. Mi suona un po’ assurda, perché non capisco quale popolazione vorrebbe vivere per decenni sotto occupazione. Ma in realtà i palestinesi lo fanno già, sia a Gaza che in Cisgiordania, ma anche nei campi profughi più disastrati di Tripoli e Beirut. “Già” interviene indignato Imad, “e poi?”. “E poi diamo tempo all’arma più formidabile in nostro possesso” aggiunge Husni, “la bomba demografica”.
Nella Volvo si fa silenzio. Per me che vengo da un Paese a crescita zero, un’espressione come bomba demografica suona minacciosa. Anche in bocca a una persona palesemente pacifica, tollerante e aperta come Husni. E mi trovo a pensare alle minoranze che stanno crescendo in Italia; ai cinesi, ai rumeni, ai magrebini. Li ho sempre visti come una risorsa, un’opportunità per un Paese altrimenti destinato all’estinzione. Ho sempre pensato che presto o tardi anche loro avrebbero finito per sentirsi più italiani che romeni, cinesi o marocchini. Ma ora mi sfiora il pensiero che in realtà si considerino altro e basta. Una bomba demografica che aspetta il momento di esplodere. Ci penso e nulla mi sembra più tanto facile: né essere italiano, né essere straniero.
Meglio tornare a guardare oltre il finestrino, lungo la Corniche. Dove le libanesi fanno ondeggiare altezzose le loro chiome corvine.

martedì 8 luglio 2008

Ancora una volta, grande Anna!

C'è un post da leggere nel blog di Anna Guaita. L'Anna style dovrebbero insegnarlo nelle scuole di giornalismo. Ma se imparare a fare il giornalista si può, diventare una persona per bene è una cosa ben più complicata...
Questo è l'indirizzo: http://www.ilmessaggero.it:80/home_blog.php?blg=P&idb=382&idaut=9

domenica 6 luglio 2008

Il Caffè degli Specchi e le magie di Beirut

Non ricordo più quale autore diceva che quando nella nostra vita si verifica una coincidenza è come se un angelo infilasse un piede nel flusso del nostro tempo. E' un'immagine che può sembrare molto romantica, ma che io preferisco considerare magica, come magiche sono alcune coincidenze.
Come posso non considerare magica la coincidenza al Caffè degli Specchi di Beirut?
Abbiamo camminato per tutta la mattina sotto un solo impietoso. Dal quartiere palestinese di Cola fino a Piazza dei Martiri e da lì a Jemmayze: un percorso senza un albero con solo i cavalli di frisia e i newjersey a interrompere il lungo asse che attraversa la città.
Il quartiere cristiano che si apre poco dopo l'immensa spianata dove un milione di persone ha pianto la morte di Rafiq Hariri sembra un altro mondo rispetto all'isola pedonale delle banche e delle terme romane che la sera si anima di una miriade di minigonne e magliette attillate che passano da bar all'altro. Non conosco la Beirut di prima della guerra civile, ma Jemmayze porta con quella che nell'immaginario collettivo è la città che fu.
Ho assillato i miei compagni di viaggio con le citazioni prese da un libro uscito appena prima della nostra partenza. Mi è sembrato un segno del destino: ho letto della presentazione di Beirut, Libano di Riccardo Cristiano e sono andato a comprarlo. Ho iniziato a leggerlo in aereo e con quelle poche pagine mi è sembrato di essere diventare un esperto. Riferisco le parole delle canzoni citate nel libro, illustro la storia di quel quartiere o di quell'altra strada; della moschea blu voluta da Hariri dopo le proteste di alcuni esaltati predicatori musulmani.
In ogni angolo di strada è un continuo citare: "come scrive Cristiano..."
Dopo qualche decina di metri lungo l'asse principale di Jemmayze siamo vinti dalla sete e dalla stanchezza. Molti locali ci ammiccano con le loro atmosfere cool, ma noi siamo alla ricerca di qualcosa di autenticamente ottomano. O che perlomeno gli assomigli. Siamo stufi dei ristoranti occidentali in cui ci portano gli italiani che probabilmente ne hanno le scatole piene di hummus e kebab.
Finalmente sul marciapiede opposto si aprono le vetrate di un caffè indiscutibilmente tradizionale. E a me pare di riconoscerlo.
"Sembra il Caffè degli Specchi descritto nel libro di..."
"E basta con questo Cristiano" sbottano i miei compagni "che palle!"
Chiudo il becco, ma nessuno ha dubbi che questo sia il locale giusto. Una volta dentro il nome sulle tovagliette mi delude. Non è il Caffè degli Specchi, ma il Caffè Jemmayze: un nome così banale da risultare sospetto. E poi è semivuoto: cosa ancora più sospetta.
Gli unici clienti sono un gruppetto di tre a un tavolino bagnato dal sole e sei vecchietti che scherzano a gran voce con quello che ha l'aria di essere il proprietario del locale. E che, non appena ci vede entrare, si è fa avanti con il sorriso levantino che ho imparato a riconoscere sul viso dei beirutini. Scegliamo pure dove sederci, ci ha dice. E io non ho esitazioni: un tavolo appena un po' in ombra, ma a filo di una delle grandi vetrate affacciata su un vicolo tranquillo.
Solo ora mi accorgo che i tre seduti poco distante parlano italiano e decido di chiedere a loro. Due donne e un uomo. Una delle donne mi (ri)conosce: è una collega di Sky con cui ho fatto un paio di missioni. Io, che non riconosco neppure mia sorella se sto due giorni senza vederla, faccio un'altra delle mie figuracce. Cerco di rimediare buttandomi subito sull'appello per un consiglio: "Com'è questo posto?" chiedo.
Ci risponde l'uomo. "A me piace molto" dice, "io ci vengo spesso". E già per questo si merita la mia stima: non è uno di quegli italiani sbruffoni che all'estero sono pronti a giurare sulla propria madre che quello in cui vanno loro è il posto migliore di tutta la città/paese/pianeta.
Vada per il Caffè Jemmayze. Ordiniamo dell'ottimo hummus e un kebab come non ne mangiavo da anni. Intingo il pane nella ciotola dell'hummus senza ritegno, lasciandomi sfuggire versi di soddisfazione. E mi scolo due limonate da un bicchiere grosso come una caraffa.
Sono al settimo cielo. Ma è ora di tornare a Cola e la strada e lunga.
Prima di uscire mi fermo a salutare l'italico terzetto e tendo la mano all'uomo, al quale non mi sono ancora presentato.
"Sono Riccardo Cristiano" si presenta a sua volta.
Sono senza parole.
E anche i miei compagni restano a bocca aperta.
Se l'autore del libro con il quale gli ho frantumato gli zebedei è lì mentre tutti lo crediamo a Roma, allora quello in cui siamo è...
"Il Caffè degli Specchi" conferma Cristiano, "solo che il nome arabo era troppo complicato e allora l'hanno cambiato in Caffè Jemmayze. Ma per il resto è tutto uguale"
Allora è qui che ha intervistato Samir Kassir, il giornalista saltato su una bomba che qualcuno aveva piazzato sotto il sedile della sua Alfa.
"Proprio lì, al tavolino al quale eravate seduti voi" risponde indicando il tavolo appena un po' in ombra, ma a filo di una vetrata affacciata su un vicolo tranquillo.
Le coincidenze di Beirut.
O forse le sue magie.