Non ricordo più quale autore diceva che quando nella nostra vita si verifica una coincidenza è come se un angelo infilasse un piede nel flusso del nostro tempo. E' un'immagine che può sembrare molto romantica, ma che io preferisco considerare magica, come magiche sono alcune coincidenze.
Come posso non considerare magica la coincidenza al Caffè degli Specchi di Beirut?
Abbiamo camminato per tutta la mattina sotto un solo impietoso. Dal quartiere palestinese di Cola fino a Piazza dei Martiri e da lì a Jemmayze: un percorso senza un albero con solo i cavalli di frisia e i newjersey a interrompere il lungo asse che attraversa la città.
Il quartiere cristiano che si apre poco dopo l'immensa spianata dove un milione di persone ha pianto la morte di Rafiq Hariri sembra un altro mondo rispetto all'isola pedonale delle banche e delle terme romane che la sera si anima di una miriade di minigonne e magliette attillate che passano da bar all'altro. Non conosco la Beirut di prima della guerra civile, ma Jemmayze porta con sé quella che nell'immaginario collettivo è la città che fu.
Ho assillato i miei compagni di viaggio con le citazioni prese da un libro uscito appena prima della nostra partenza. Mi è sembrato un segno del destino: ho letto della presentazione di Beirut, Libano di Riccardo Cristiano e sono andato a comprarlo. Ho iniziato a leggerlo in aereo e con quelle poche pagine mi è sembrato di essere diventare un esperto. Riferisco le parole delle canzoni citate nel libro, illustro la storia di quel quartiere o di quell'altra strada; della moschea blu voluta da Hariri dopo le proteste di alcuni esaltati predicatori musulmani.
In ogni angolo di strada è un continuo citare: "come scrive Cristiano..."
Dopo qualche decina di metri lungo l'asse principale di Jemmayze siamo vinti dalla sete e dalla stanchezza. Molti locali ci ammiccano con le loro atmosfere cool, ma noi siamo alla ricerca di qualcosa di autenticamente ottomano. O che perlomeno gli assomigli. Siamo stufi dei ristoranti occidentali in cui ci portano gli italiani che probabilmente ne hanno le scatole piene di hummus e kebab.
Finalmente sul marciapiede opposto si aprono le vetrate di un caffè indiscutibilmente tradizionale. E a me pare di riconoscerlo.
"Sembra il Caffè degli Specchi descritto nel libro di..."
"E basta con questo Cristiano" sbottano i miei compagni "che palle!"
Chiudo il becco, ma nessuno ha dubbi che questo sia il locale giusto. Una volta dentro il nome sulle tovagliette mi delude. Non è il Caffè degli Specchi, ma il Caffè Jemmayze: un nome così banale da risultare sospetto. E poi è semivuoto: cosa ancora più sospetta.
Gli unici clienti sono un gruppetto di tre a un tavolino bagnato dal sole e sei vecchietti che scherzano a gran voce con quello che ha l'aria di essere il proprietario del locale. E che, non appena ci vede entrare, si è fa avanti con il sorriso levantino che ho imparato a riconoscere sul viso dei beirutini. Scegliamo pure dove sederci, ci ha dice. E io non ho esitazioni: un tavolo appena un po' in ombra, ma a filo di una delle grandi vetrate affacciata su un vicolo tranquillo.
Solo ora mi accorgo che i tre seduti poco distante parlano italiano e decido di chiedere a loro. Due donne e un uomo. Una delle donne mi (ri)conosce: è una collega di Sky con cui ho fatto un paio di missioni. Io, che non riconosco neppure mia sorella se sto due giorni senza vederla, faccio un'altra delle mie figuracce. Cerco di rimediare buttandomi subito sull'appello per un consiglio: "Com'è questo posto?" chiedo.
Ci risponde l'uomo. "A me piace molto" dice, "io ci vengo spesso". E già per questo si merita la mia stima: non è uno di quegli italiani sbruffoni che all'estero sono pronti a giurare sulla propria madre che quello in cui vanno loro è il posto migliore di tutta la città/paese/pianeta.
Vada per il Caffè Jemmayze. Ordiniamo dell'ottimo hummus e un kebab come non ne mangiavo da anni. Intingo il pane nella ciotola dell'hummus senza ritegno, lasciandomi sfuggire versi di soddisfazione. E mi scolo due limonate da un bicchiere grosso come una caraffa.
Sono al settimo cielo. Ma è ora di tornare a Cola e la strada e lunga.
Prima di uscire mi fermo a salutare l'italico terzetto e tendo la mano all'uomo, al quale non mi sono ancora presentato.
"Sono Riccardo Cristiano" si presenta a sua volta.
Sono senza parole.
E anche i miei compagni restano a bocca aperta.
Se l'autore del libro con il quale gli ho frantumato gli zebedei è lì mentre tutti lo crediamo a Roma, allora quello in cui siamo è...
"Il Caffè degli Specchi" conferma Cristiano, "solo che il nome arabo era troppo complicato e allora l'hanno cambiato in Caffè Jemmayze. Ma per il resto è tutto uguale"
Allora è qui che ha intervistato Samir Kassir, il giornalista saltato su una bomba che qualcuno aveva piazzato sotto il sedile della sua Alfa.
"Proprio lì, al tavolino al quale eravate seduti voi" risponde indicando il tavolo appena un po' in ombra, ma a filo di una vetrata affacciata su un vicolo tranquillo.
Le coincidenze di Beirut.
Come posso non considerare magica la coincidenza al Caffè degli Specchi di Beirut?
Abbiamo camminato per tutta la mattina sotto un solo impietoso. Dal quartiere palestinese di Cola fino a Piazza dei Martiri e da lì a Jemmayze: un percorso senza un albero con solo i cavalli di frisia e i newjersey a interrompere il lungo asse che attraversa la città.
Il quartiere cristiano che si apre poco dopo l'immensa spianata dove un milione di persone ha pianto la morte di Rafiq Hariri sembra un altro mondo rispetto all'isola pedonale delle banche e delle terme romane che la sera si anima di una miriade di minigonne e magliette attillate che passano da bar all'altro. Non conosco la Beirut di prima della guerra civile, ma Jemmayze porta con sé quella che nell'immaginario collettivo è la città che fu.
Ho assillato i miei compagni di viaggio con le citazioni prese da un libro uscito appena prima della nostra partenza. Mi è sembrato un segno del destino: ho letto della presentazione di Beirut, Libano di Riccardo Cristiano e sono andato a comprarlo. Ho iniziato a leggerlo in aereo e con quelle poche pagine mi è sembrato di essere diventare un esperto. Riferisco le parole delle canzoni citate nel libro, illustro la storia di quel quartiere o di quell'altra strada; della moschea blu voluta da Hariri dopo le proteste di alcuni esaltati predicatori musulmani.
In ogni angolo di strada è un continuo citare: "come scrive Cristiano..."
Dopo qualche decina di metri lungo l'asse principale di Jemmayze siamo vinti dalla sete e dalla stanchezza. Molti locali ci ammiccano con le loro atmosfere cool, ma noi siamo alla ricerca di qualcosa di autenticamente ottomano. O che perlomeno gli assomigli. Siamo stufi dei ristoranti occidentali in cui ci portano gli italiani che probabilmente ne hanno le scatole piene di hummus e kebab.
Finalmente sul marciapiede opposto si aprono le vetrate di un caffè indiscutibilmente tradizionale. E a me pare di riconoscerlo.
"Sembra il Caffè degli Specchi descritto nel libro di..."
"E basta con questo Cristiano" sbottano i miei compagni "che palle!"
Chiudo il becco, ma nessuno ha dubbi che questo sia il locale giusto. Una volta dentro il nome sulle tovagliette mi delude. Non è il Caffè degli Specchi, ma il Caffè Jemmayze: un nome così banale da risultare sospetto. E poi è semivuoto: cosa ancora più sospetta.
Gli unici clienti sono un gruppetto di tre a un tavolino bagnato dal sole e sei vecchietti che scherzano a gran voce con quello che ha l'aria di essere il proprietario del locale. E che, non appena ci vede entrare, si è fa avanti con il sorriso levantino che ho imparato a riconoscere sul viso dei beirutini. Scegliamo pure dove sederci, ci ha dice. E io non ho esitazioni: un tavolo appena un po' in ombra, ma a filo di una delle grandi vetrate affacciata su un vicolo tranquillo.
Solo ora mi accorgo che i tre seduti poco distante parlano italiano e decido di chiedere a loro. Due donne e un uomo. Una delle donne mi (ri)conosce: è una collega di Sky con cui ho fatto un paio di missioni. Io, che non riconosco neppure mia sorella se sto due giorni senza vederla, faccio un'altra delle mie figuracce. Cerco di rimediare buttandomi subito sull'appello per un consiglio: "Com'è questo posto?" chiedo.
Ci risponde l'uomo. "A me piace molto" dice, "io ci vengo spesso". E già per questo si merita la mia stima: non è uno di quegli italiani sbruffoni che all'estero sono pronti a giurare sulla propria madre che quello in cui vanno loro è il posto migliore di tutta la città/paese/pianeta.
Vada per il Caffè Jemmayze. Ordiniamo dell'ottimo hummus e un kebab come non ne mangiavo da anni. Intingo il pane nella ciotola dell'hummus senza ritegno, lasciandomi sfuggire versi di soddisfazione. E mi scolo due limonate da un bicchiere grosso come una caraffa.
Sono al settimo cielo. Ma è ora di tornare a Cola e la strada e lunga.
Prima di uscire mi fermo a salutare l'italico terzetto e tendo la mano all'uomo, al quale non mi sono ancora presentato.
"Sono Riccardo Cristiano" si presenta a sua volta.
Sono senza parole.
E anche i miei compagni restano a bocca aperta.
Se l'autore del libro con il quale gli ho frantumato gli zebedei è lì mentre tutti lo crediamo a Roma, allora quello in cui siamo è...
"Il Caffè degli Specchi" conferma Cristiano, "solo che il nome arabo era troppo complicato e allora l'hanno cambiato in Caffè Jemmayze. Ma per il resto è tutto uguale"
Allora è qui che ha intervistato Samir Kassir, il giornalista saltato su una bomba che qualcuno aveva piazzato sotto il sedile della sua Alfa.
"Proprio lì, al tavolino al quale eravate seduti voi" risponde indicando il tavolo appena un po' in ombra, ma a filo di una vetrata affacciata su un vicolo tranquillo.
Le coincidenze di Beirut.
O forse le sue magie.
2 commenti:
Bellissima storia, davvero suggestiva.
Conservala nell'archivio della memoria, sembra quasi fatta apposta per comparire in uno dei tuoi romanzi.
Anna
Bella storia davvero. E molto letteraria. E poi fare questo mestiere, come lo fai tu...
gloria
p.s. (vista la novità?)
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