Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile

giovedì 11 settembre 2008

I teutonici vandali di Pompei

Sono facile all'indignazione. E' un mio limite, forse, ma cose come i graffiti sul ponte di Corso Francia; la gente senza casco sui motorini o senza cintura in auto e quelli che saltano le file mi mandano in bestia. E mi capita di cadere nella trappola del qualunquismo e di pensare cose come: "in Germania questo non succederebbe" o "in Giappone gli taglierebbero una mano".
Mi sono dovuto ricredere.
Abbiamo portato i bambini a Pompei. Lucrezia ha appena studiato i romani, Leonardo è un appassionato di storia e ci è sembrato il posto più logico. Giravano per le vie della città con la bocca spalancata e uno stupore senza fine, proprio come quelle decine di turisti stranieri che in gruppi serrati come centurie passavano da una casa all'altra ammirando lo splendore di mosaici e affreschi e impallidendo di fronte all'incuria e alla pietosa scena dei (pochi) guardiani addormentati sulle sedie.
Io un po' mi beavo, di nuovo preda di un italico qualunquismo. "Ecco" pensavo tra me e me, "voi questo a casa vostra non ce l'avete". E ammiravo il contegno con cui si muovevano tra le rovine. Anzi del contegno con cui mi illudevo si muovessero tra le rovine. Perché ad un tratto hanno cominciati a saltarmi agli occhi alcuni particolari. Come la trippona che nella Casa di Stefano appoggiava immense natiche teutoniche alla vasca affrescata nella quale il tintore di duemila anni fa immergeva le sue stoffe. O i due adolescenti che toccavano con le mani sudate i delicati dipinti sulle pareti.
"Papà, quelli toccano" ha detto Leonardo guardandoli indignato.
"Lo vedo" è stata l'unica cosa che sono stato capace di dire.
Quando mi sono avvicinato a loro per rimproverarli li ho sentiti parlare in tedesco.
Ma come? Non dovevano essere il faro della civiltà europea? L'esempio di ordine e buon comportamento. Non erano quelli che trent'anni fa schiaffavano sulla copertina dello Spiegel un piatto di spaghetti condito con una pistola facendoci vergognare a morte dell'italico tasso criminale? Non erano quelli che poche settimane fa accusavano il Festival del Cinema di Venezia di provincialismo? Non erano quelli che, sempre sullo Spiegel, spiegavano con dotto piglio perché gli italiani, un tempo così amati oggi non lo sono più?
Virginia - l'amica che era in viaggio con noi - è stata più veloce di me. Ha urlato alla guida del gruppo di stare attenta a dove il suo gregge metteva le zampe. Ma quella (per la cronaca, una guida della Msc Crociere) si è limitata a stringersi nelle spalle come a dire "sapete quante volte gliel'ho ripetuto?".
La trippona ha finalmente sollevato le chiappe dalla vasca e i ragazzini hanno graziato l'affresco sopravvissuto al Vesuvio per andare a fare danni da un'altra parte.
E a me è rimasta sulla punta della lingua il rimprovero e nel fegato la rabbia per non aver agito più in fretta. Rimuginando insulti mi sono avviato lungo la strada e giusto pochi passi oltre ho trovato un'altra sorpresa. Due ragazze giapponesi guardavano una finestra e poi confabulavano tra loro. Con i miei trenta centimetri in più di altezza riuscivo a vedere che oltre quella finestra si poteva spiare nel giardino di una villa patrizia, ma sarebbe bastato spostarsi mezzo metro più in là per godere dello stesso spettacolo attraverso la porta aperta. Ma loro no: dovevano provare l'emozione del free-climbing. Così una si è arrampicata su una pietra sporgente e si è sollevata fino ad altezza di occhi. Ma Pompei, si sa, non è fatta di cemento armato e se ha resistito alla cenere del Vesuvio, non può reggere il peso di un obiettivo Nikon 70-210 che si porta appresso 40 chili di giapponesina. Così la pietra ha ceduto, la nippoturista è rimasta appesa alla finestra come Willy Coyote e un pezzo di muratura che duemila anni fa un manovale aveva sistemato con cura bestemmiando in latino contro il caldo è rotolato via.
"Ehi!" ho urlato. Quella appesa è caduta come una pera dall'albero; quell'altra mi ha guardato come se l'avessi appena sorpresa a spacciare eroina davanti a un asilo nido. Avrei potuto spiegare in inglese le ragioni della mia rabbia, ma non l'ho fatto neppure in italiano. Ho fatto ricorso all'intonazione minacciosa che solo un certo tipo di accento palermitano può rendere. Eppure credo che abbiano capito.
Anche i miei figli hanno capito. "Se continua così, fra dieci anni qui non resterà più niente" hanno borbottato, carichi di una sana, italica indignazione.
P.S.: la foto è stata scattata senza flash per non danneggiare l'affresco. Ma ero l'unico a usare questa accortezza.

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