Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile

lunedì 22 dicembre 2008

Hats off to Maria

Il violento scossone della caldaia che si metteva in funzione faceva tremare anche la testiera del mio letto. Quel vecchio polmone che sputava carbone nel cielo di Long Island era il mio buongiorno. Avevo fatto in fretta ad abituarmici e ad aiutarmi era il rumore che ogni mattina precedeva quel fragore di acciaio e rame. I passi di Maria lungo la scala che portava nel basement erano pesanti e incerti. Mi stupiva sempre come una vecchietta così esile potesse fare tanto baccano per scendere la dozzina di scalini che dal piano nobile della casa di West Beech st. portava nel regno che avevo usurpato: il seminterrato.
Ero orgoglioso di quella sistemazione. Era gratis, innanzitutto, e per un ragazzo di ventiquattro anni in fuga dall'Italia era una manna dal cielo. E poi era una specie di Paese dei Balocchi, con tanto di flipper anni '60 e bancone da bar. L'avevano sistemato così perché l'intenzione era che diventasse... Non lo sapevano bene neppure loro, ma quando avevo chiesto ospitalità me l'avevano messo a disposizione: molto più spazio di quello che mi serviva. Lo strattone della caldaia dopo poche ore di sonno era un disagio più che lieve da sopportare.
Maria parlava poco. Cucinava i più orribili pancake che abbia mai mangiato, ma solo perché era cibo americano e lei disprezzava quella roba. Così nei - rari - pasti che consumavo a casa mi rifacevo degli hot-dog da un dollaro e hamburgher a buon mercato con cui tamponavo la fame nelle mie giornate a Manhattan.
Come io mi ero abituato in fretta al chiasso della caldaia, così Maria aveva familiarizzato con i miei orari balordi. Le avevo spiegato che dovevo far coincidere i miei ritmi con quelli delle redazioni in Italia, ma lei era convinta che se mi ritiravo alle tre di notte era solo perché stavo a bighellonare perla città.
Insieme a poche parole condividevamo rituali essenziali. Era lei a portarmi a tavola un bicchiere colmo di spremuta d'arancia Tropicana a colazione ed ero io a lasciare ogni notte il segnale convenuto che doveva rassicurarla sul mio rientro a casa. Ogni notte, prima di andare a dormire, lasciavo il bicchiere con cui avevo bevuto l'ultimo sorso d'acqua della giornata sempre nello stesso angolo della cucina. Una notte che non avevo sete mancai il segnale e l'indomani i passi di Maria lungo la scala furono più pesanti del solito e a svegliarmi non fu il clangore della caldaia, ma lei che si precipitava a controllare che fossi tornato. Non mancai più di lasciare il bicchiere nel posto convenuto.
Una sola volta l'accompagnai a fare la spesa. Ci vollero quattro ore, perché se cercava dello sciroppo d'acero doveva passare in rassegna tutte le 99 marche disposte sullo scaffale; confrontare prezzi, data di scadenza e origine. E poi perché non ero in grado di aiutarla: nel suo personale idioma gli articoffi erano i carciofi e la emma il prosciutto. Mi serviva più tempo per comprendere di cosa avesse bisogno che per trovarlo.
Le avevo promesso che le avrei letto la saga che sto portando avanti da anni e che è ispirata alla straordinaria storia della sua famiglia. Non so quando finirò di scriverla e probabilmente avevo fatto male a farle quella promessa.
Ne ho avuto la conferma oggi, quando mi è arrivata una telefonata da molto lontano. "Maria non potrà più portarti l'aranciata" mi ha detto chi aveva imparato a conoscere i nostri rituali e un tempo ne aveva riso.
Hats off to Maria.

venerdì 19 dicembre 2008

Que Viva Varesi!

Che vi avevo detto del feeling che si instaura tra i finalisti di un premio letterario (quando sono simpatici)? E quindi è con enorme soddisfazione che annuncio la vittoria di Valerio Varesi alla
XII edizione del premio Franco Fedeli, organizzato dal Siulp, il sindacato unitario dei poliziotti.
Il buon Valerio, che era candidato come me al Premio Scerbanenco, si è aggiudicato il riconoscimento con il romanzo "Oro, incenso e polvere", edizioni Frassinelli.
Questa la motivazione stilata da Giuseppe Giliberti con la collaborazione di Valerio Calzolaio e Maurizio Matrone : In una cornice realistica e attuale, con rapporti chiari tra le gerarchie dell’indagine, là dove il caso si combina apparentemente con un disegno divino, il nostro poliziotto sbroglia una vicenda – anche personale - che la nebbia, marchio di fabbrica del nostro vincitore, non ha saputo dissimulare. Una storia di uomini posti brutalmente di fronte all’età che avanza, alla fine dell’età dell’oro e alle prese con le proprie debolezze e inadeguatezze nei confronti di donne forti e risolute. Un mercato dei pregiudizi, dei sentimenti e delle relazioni umane che non risparmia nemmeno il commissario Soneri, investigatore idealista e disilluso. Ispirato a un mix di storie realmente accadute il romanzo della maturità di Valerio Varesi ha convinto per la bella scrittura, la complessa veridicità del poliziotto, la costruzione della trama.
Que Viva Valerio!

martedì 16 dicembre 2008

Tre sorelle e un gatto immortale - remastered

Anni fa ho tenuto sull'edizione palermitana di Repubblica una rubrica che mi divertiva molto e che mi permetteva di raccontare le storie incredibili in cui mi imbattevo. Troppo incredibili per sembrare vere, ma che vere lo erano dall'inizio alla fine.
Una delle più folli raccontava di tre sorelle e un gatto immortale. Ancora oggi, quando vado a Palermo, mi capita di incontrare gente che ci chiede di raccomtarla di nuovo.
Eccoli accontentati nella versione originale datata 8 settembre 2001:

TRE SORELLE E UN GATTO IMMORTALE
A dispetto del suo nome, il gatto Stinky non puzzava affatto. E a dispetto del fatto che avesse passato la maggior parte dei suoi 19 anni di vita negli Stati Uniti, si sentiva un gatto italiano. O almeno questo sostenevano le sue padrone, le sorelle G. - Sara, Nina e Maria - siciliane di nascita, ma americane di adozione, che lo avevano raccolto al porto di Genova, uno degli scali coperti dalla loro compagnia di navigazione.
A quattro anni Stinky pesava sei chili e a dieci era in linea perfetta con la tendenza del Paese che lo ospitava: un gatto obeso di dodici chili. Nonostante questo aveva mantenuto un'agilità che gli consentiva di acchiappare gli scoiattoli nel giardino della villa nel New Jersey e di uscire vincitore dalle risse con i gatti di campagna. La vitalità di Stinky si moltiplicava quando le padrone lo portavano con loro nei viaggi in Italia. «È l'aria di casa» diceva Sara, che in cuor suo non si era mai abituata agli States e sentiva la stessa energia scorrerle nelle vene.
Quando Stinky vide che era il momento di smetterla di dare la caccia agli scoiattoli e fare a botte con i gatti selvatici, decise di morire. Ma gli agi di cui aveva goduto per 12 anni avevano un prezzo: l'immortalità. Le sorelle G. non avevano alcuna intenzione di rassegnarsi al corso naturale delle cose e stabilirono che Stinky non poteva e non doveva morire. L'assegno che staccarono alla Goldstein animal clinic di Manhattan aveva tre zeri preceduti da un numero superiore a cinque. Ma quando il gatto Stinky uscì dall'edificio nell'Upper East Side avrebbe fatto invidia a Cher. Il pelo rifulgeva di un rosso brillante, le zampe lo sostenevano forti e solide, la coda, rimasta un po' storta dopo un combattimento, era dritta come un fuso. La cataratta che gli velava lo sguardo era scomparsa. Qualcuno, lì nel Jersey, raccontò che gli avevano fatto lo stesso trattamento che altrove era riservato a Mick Jagger: il lavaggio completo del sangue.
Sette anni dopo Stinky era vittima di un accanimento terapeutico che lo aveva trasformato in una specie di cuscino da poltrona. Di fronte a tanto sfacelo, Sara decise che un viaggio in Italia era l'unica possibilità di riportare un po' di energia nelle vene del gatto. Le sorelle G. presero in affitto una casa al mare e partirono. Appena fuori dalla gabbia, nella deliziosa villetta che si affacciava sul mare, Stinky dimostrò che Sara aveva visto giusto. Spiccò un piccolo balzo, si fece una corsetta su e giù per la terrazza, girò su se stesso per una paio di volte e poi cadde a terra, morto stecchito.
Raccontare il dolore delle sorelle G. potrebbe forse spiegare perché avessero fatto tanto per tenere in vita un gatto ben oltre il tempo consentito, ma distrarrebbe dall'incredibile odissea di Stinky, che iniziava con il suo improvvido decesso.
La prima decisione che presero fu che la vacanza finiva quel giorno.
La seconda fu che Stinky doveva tornare con loro negli Stati Uniti.
Di fronte alle facce devastate dal dolore delle sorelle G., l'impresario funebre decise che bisognava inalberare l'espressione più contrita del suo repertorio. Fece le sue condoglianze in ordine di età, da Sara a Maria, e chiese, quasi con un sospiro, dove era il congiunto. Quando le sorelle lo fecero accomodare in cucina, l'impresario riuscì a contenere la sorpresa, ma quando Nina aprì lo sportello del congelatore per mostrare il gatto chiuso in una busta trasparente fece un salto all'indietro. Nina tirò fuori Stinky, rigido come uno stoccafisso, e glielo mostrò.
«È lui» disse.
«È uno scherzo» si sforzò di sorridere l'impresario.
Ci volle mezz'ora buona perché le sorelle facessero capire senza ombra di malintesi che volevano portare il cadavere di Stinky in America per dargli degna sepoltura, ma che c'era un problema: se negli Stati Uniti era impossibile fare entrare una fetta di salame, figurarsi un gatto morto! Superata la perplessità e rassicurato dalla garanzia che la spesa non era un fattore influente, l'impresario si mise al lavoro. La prima cosa che fece fu infilare il gatto in una bara e metterlo in uno sgabuzzino esterno che aveva l'aria di essere la stanza più fresca della casa.
L'indomani mattina, quando le sorelle si svegliarono per affrontare una nuova giornata di dolore, trovarono la porta dello sgabuzzino aperta e il padrone di casa, un uomo anziano e rispettabile, disteso per terra, svenuto. Era successo che all'alba il pover'uomo era andato a prendere alcuni attrezzi e, appena aperta la porta, si era trovato davanti la bara, piccola e candida. Le sorelle gli spiegarono che cosa era successo, ma lui - anche lui - fece un po' di fatica a capire e quando se ne andò era più confuso che persuaso.
Poi venne il turno di un veterinario della Asl. Toccava a lui stabilire che la morte del gatto non era dovuta a un virus, ma quando Nina gli disse il perché di tutte quelle procedure, l'uomo guardò a lungo negli occhi l'impresario e i due esplosero in una fragorosa risata. Ci vollero alcuni minuti perché si riprendessero e, sotto l'espressione severa di Nina, cominciasse l'autopsia.
Poi fu la volta del console americano. L'uomo sapeva che di fronte a un passaporto con l'aquila calva sulla copertina tutto diventava possibile, ma gli riuscì di trattenere le risate solo per pochi minuti. Mentre metteva il nulla osta sui risultati dell'autopsia, cominciò a ridere e smise solo dopo che l'indignata espressione di Nina ebbe lasciato l'ufficio.
Svuotato di sé e riempito di segatura, il gatto Stinky arrivò all'aeroporto di Punta Raisi per intraprendere il suo ultimo viaggio. Quando le sorelle si presentarono alla dogana con i documenti per il gatto, i tre finanzieri si guardarono negli occhi e poi fissarono le tre donne. Decine di contadine avevano viaggiato avanti e indietro dagli Stati Uniti in meno di 48 ore per portare droga nei capienti reggiseni e pensarono che quello fosse un nuovo stratagemma, ma non avrebbe funzionato. Chi poteva aver interesse a portare un gatto di dodici chili negli Stati Uniti se non era pieno di eroina? L'attesa del veterinario e di una nuova autopsia fece perdere l'aereo alle sorelle. Ma sarebbe stato nulla se non avessero dovuto subire l'onta di veder morire dal ridere i finanzieri e il veterinario mentre riconsegnavano il gatto.
La scena stava per ripetersi all'aeroporto JFK di New York quando un agente dell'Fbi si convinse di essere vicino al colpo della sua carriera. Ordinò agli uomini della dogana di lasciare andare il gatto e le donne e si mise alle loro calcagna. Le seguì fino a casa e organizzò dei turni di sorveglianza. Ma nelle ventiquattr'ore che seguirono nessuno si avvicinò alla villa. Al pomeriggio successivo una delle donne uscì in giardino, scavò una buca e tornò in casa. L'indomani, tutte e tre insieme, calarono la scatola di legno con il gatto nella buca e la coprirono. Rimasero un po' a piangervi sopra, poi tornarono in casa. L'agente attese altre quarantott'ore, poi si arrese. Quella sera, vedendolo particolarmente buio, il barista del locale vicino casa gli chiese se qualcosa fosse andato storto. L'agente scosse un po' il capo. «Credevo di aver messo le mani su un gruppo di corrieri dei mafiosi del Jersey - disse - e invece erano solo tre sorelle matte che si erano portate dall'Italia un gatto morto per seppellirlo in giardino». Rimase un po' a fissare la sua birra, poi cominciò a ridere fino alle lacrime. Alcuni giorni più tardi decise di passare dalla villa. Sulla buca c'era una lapide e sulla lapide, in equilibrio come se fosse vivo, un enorme gatto di granito.
Ma neanche allora l'odissea di Stinky poté dirsi conclusa. Anni dopo, quando le sorelle decisero di trasferirsi in Italia, il gatto fu riesumato, cremato e le ceneri deposte in un'urna, che Nina conserva ancora sul comò della sua stanza da letto.

mercoledì 10 dicembre 2008

Le bilance di Fiumicino: due pesi e due misure

Questo è un breve spunto per gli allievi delle scuole di giornalismo. O per quelli di Striscia la notizia, se hanno voglia di fare un salto all'aeroporto di Fiumicino.
La settimana scorsa io e mia moglie siamo partiti per Courmayeur, dove al Noir Fest sarebbe stato consegnato il Premio Scerbanenco. Volo Roma-Torino con AirOne e poi a Caselle è venuta a prenderci un'auto dell'organizzazione. Solita indecisione sui bagagli: un trolley medio per due o un trolley piccolo per ognuno? Alla fine sono riuscito a convincere mia moglie che con il trolley da cabina avremmo evitato di aspettare al nastro bagagli a Caselle e soprattutto scongiurato una sfiga come quella piombata su un giurato la cui valigia invece che a Torino è finita a Catania. E con -5 gradi e i prezzi assurdi di Courmayeur non è uno scialo trovarsi in mezzo alla neve senza cambio.
Bagaglio ridotto all'osso per sfuggire alla bilancia e computer nella borsa ci presentiamo al check-in del volo per Torino. Il tizio ci fa poggiare il bagaglio di mia moglie sulla bilancia mentre al banco accanto un altro passeggero litiga con una hostess di terra. Non sono affari miei e non mi impiccio (balle, è solo che non riuscivo a sentirli). Il tizio del check-in ci guarda e dice: "bisogna imbarcare". Come bisogna imbarcare? "Eh sì: pesa 11 chili, quindi o lo alleggerite di sei (mia moglie avrebbe dovuto indossare tutto quello che aveva in valigia incluse due paia di scarpe) o lo imbarchiamo". Perplesso ho chiesto che fosse pesato anche il mio trolley: otto chili!
Ora, io non vendo frutta al mercato e non ho particolare dimestichezza con le unità di misura. Se devo calare un etto di pasta a occhio è più probabile che mi ritrovi sul piatto una porzione pediatrica o una da camionista, ma tra una valigia di cinque e una di otto chili credo di saper ancora distinguere. Prima che mia moglie abbia il tempo di innervosirsi il tizio si accorge che il nostro non è un biglietto della compagnia con la quale tentavamo di imbarcarci - la Blu Express - ma di Air One e ci dirotta a un altro banco.
Stessa scena, ma pesa diversa: il trolley di mia moglie passa miracolosamente da 11 a otto chili e il mio da otto a cinque. Mia moglie è ancora fuori norma perché il massimo consentito a bordo è 5 chili, ma nel mio caso la differenza è tra un bagaglio in cabina e una valigia persa a Catania. Comunque ci lasciano portare in cabina anche quello da otto chili perché tanto c'è gente che si carica pure un quarto di bue e stare a fare polemica su tre chili non conviene a nessuno.
Ma una domanda resta: perché c'è una differenza di tre chili tra una bilancia e l'altra? Le compagnie low cost guadagnano sul peso in eccesso in base a criteri stabiliti qui per quanto riguarda Blu Express e qui per quanto riguarda Ryanair che comunque parte da Ciampino. Non credo che nel nostro caso avremmo dovuto pagare di più, ma di certo avremmo dovuto aspettare di più.
Rimane il fatto che davvero a Fiumicino si applicano due pesi e due misure.
P.S.: poi l'ho scoperto, il passeggero e l'hostess di terra litigavano perché lui non voleva imbarcare in stiva un bagaglio che sosteneva di aver trasportato in cabina - con lo stesso peso - nel viaggio di andata. Due viaggi, due misure.

sabato 6 dicembre 2008

Ecco com'è andata allo Scerbanenco

Ero venuto agguerrito e carico di pregiudizi. Funziona sempre così ai premi letterari, poi mi capita di trovarmi a pranzo con gli altri concorrenti e scoprire che (quasi tutti) sono simpatici e allegri, che tutti insieme ci si sforza di penderla come una gita e che tutto sommato quella fascetta sulla copertina del libro non fa tutta questa differenza.
Così questa sera se avesse vinto Tommaso Pincio o Angelo Petrella mi sarebbe stato bene. Non sono così falso da arrivare a dire che sarei stato contento, ma sono simpatici, molto simpatici e magari gli ultimi ossicini del rospo sarebbero andati giù più facilmente. Avrei ben tollerato la vittoria di Valerio Varesi, che al Premio Scerbanenco è un po' come Francis Ford Coppola all'Oscar fino all'anno scorso: sempre candidato e mai una statuetta.
E invece ha vinto Paola Barbato.
Devo confessare che non ho letto nessuno dei libri in gara. Mi riprometto di leggere Cinacittà di Pincio e La città perfetta di Petrella, ma fino ad ora il mio giudizio si è dovuto limitare alla prima impressione che mi hanno fatto le persone. Il che in letteratura è un paradosso, perché in genere si ama uno scrittore fino a scoprire che è un odioso farabutto e nonostante questo a volte la passione resta. Con i miei compagni di avventura allo Scerbanenco, invece, ho dovuto fidarmi non della parola scritta, ma di quella parlata; delle risate condivise invece che di quelle descritte su pagina. E mi è andata bene. Con Varesi, tipo riservato e attento, ho avuto una breve, ma interessante conversazione sulla sceneggiatura e su Parma. Con Pincio e Petrella ci siamo fatti proprio delle gran risate. Ero persino partito prevenuto nei confronti di Tommaso, perché uno che abbandona il proprio nome per assumere uno pseudonimo che ricorda Thomas Pynchon mi insospettiva. E invece è una persona sensibile e divertente, ironica e mai cinica. Angelo, poi, è vero spasso.
Su Paola Barbato non posso dire nulla. Assolutamente nulla, perché non ho scambiato con lei neppure due parole. Posso solo dire che non mi è piaciuto il tono con cui ha risposto alle domande di Valerio Calzolaio, incaricato di presentare il suo libro.
Questa la motivazione con cui le è stato assegnato il premio:
“Il romanzo traccia a tinte forti una realtà oscura e alternativa fatta di violenze sotterranee e destini emarginati ed è caratterizzato da una scrittura cupa e claustrofobica che preme sulla pagina come una cappa di piombo dalla quale i personaggi non riescono ad emergere. Ma nel suo delirante parossismo il romanzo delinea le coordinate di un mondo in cui la quotidianità diventa il miraggio a cui i protagonisti neanche provano ad aspirare dal basso del loro delirio di violenza”.
Un noir, non c'è dubbio.

venerdì 5 dicembre 2008

Neve sul Noir

Courmayeur ci ha dedicato una bella nevicata. Ha cominciato a venir giù verso sera e non ha ancora smesso. Le previsioni dicono che andrà avanti così per tutta la giornata di domani. Sono impreparato: jeans e Brian Cress da città non sono l'ideale per affondare in quasi un metro di neve. Pago lo scotto di non aver voluto fare la figura di Totò e Peppino a Milano, ma per fortuna sono stato abbastanza previdente da pensare a piumino, guanti e sciarpa. Confortevole dalle ginocchia in su, clinicamente ibernato dalle rotule in giù.
Ho scoperto - ma in fondo lo sapevo già - che i noiristi si conoscono tutti e che per loro il Premio Scerbanenco e il Noir Film Festival sono come il Gruppo Vacanza Piemonte: un appuntamento imperdibile. Per tutto l'anno si scrivono, si incontrano a drappelli alle presentazioni, creano gruppi su facebook o fanno volare gli stracci sui blog, ma è qui a Courmayeur che si danno appuntamento per ideare nuove raccolte, mettere in cantiere collaborazioni e, perché no, spettegolare su assenti e presenti.
Dopo la cena a inviti (anche qui mi sono presentato vestito in maniera appena appena adeguata: "in montagna è tutto così easy" mi avevano assicurato. Balle!) mi sono goduto un film davvero carino: The bank job diretto da Roger Donaldson. Lo so che definire carino un film è come dire di una ragazza che è interessante o di un uomo che è simpatico, ma non posso metterlo sullo stesso piano di The inside man.
Fra poche ore di nuovo in pista per la presentazione della cinquina finalista. Poi sessione fiume della giuria e alle 22 proclamazione del vincitore in stile And The Winner Is...
Nessuna illusione: i premi vanno come devono andare. Incrocio le dita.

martedì 2 dicembre 2008

Uomini e gentiluomini

Leggendo l'articolo che il Corriere della Sera di oggi dedica alla Fiera del Libro di Guadalajara sono rimasto perplesso. Ranieri Polese, autore dell'articolo, riporta con sarcasmo i già sarcastici commenti dei giornali messicani alla visita lampo di Franco Frattini alla Fiera. Non mi stupisce che i quotidiani locali ci siano rimati mali nel vedere che il ministro degli Esteri del Paese ospite d'onore della Fiera si sia trattenuto appena 25 minuti ("di cui 20 dedicati al suo discorso") e sia andato via di corsa, ma mi stupisce che un giornalista come Ranieri Polese non si sia preso la briga di scoprire il perché di tanta fretta. Gli sarebbe bastato chiamare il suo collega degli Esteri, Maurizio Caprara, esperto di Farnesina, che in quattro e quattr'otto gli avrebbe spiegato il perché e il percome. O magari dare un'occhiata alle quattro-agenzie-quattro che alla fretta di Frattini hanno dedicato un lancio. Ma Ranieri Polese non ha ritenuto che fosse il caso di perdere tempo in queste quisquilie e si è molto divertito a trarre ispirazione dai titoli dei giornali messicani.
Ora io vi racconto come sono andate le cose dato che ero lì e - a differenza di Ranieri Polese - sono uno che il perché delle cose se lo chiede e lo chiede.
In origine la partecipazione di Frattini a Guadalajara prevedeva una tavola rotonda in apertura di Fiera con il presidente messicano Calderon, il premio Nobel Gabriel Garcia Marquez e lo scrittore Carlos Fuentes. Un'occasione ghiotta per noi giornalisti e una dimostrazione di rispetto e di stima da parte di esponenti di spicco del mondo politico e della letteratura latino-americana. Ma evidente non era una missione baciata dalla fortuna e quando già eravamo a Città del Messico sono cominciate ad arrivare le sorprese. Per prima è arrivata la disdetta di Calderon, che ha fatto sapere di non poter partecipare. Poi, con varie scuse, quella di Garcia Marquez e di Fuentes.
Ora immaginate una situazione come questa: un amico vi invita a mangiare una pizza per farvi conoscere altri suoi due amici. Poi però dà buca e con lui gli altri due e voi restate a mangiare con il pizzettaro. Non sarebbe una cosa carina, no? Bene: è più o meno quello che è successo, tanto che noi giornalisti ci siamo chiesti perché Frattini non desse un bel calcio nel sedere a tutta la baracca e se ne tornasse a Roma senza passare da Guadalajara. Ma Franco Frattini è un gentiluomo, mentre evidentemente noi giornalisti - non escluso Ranieri Polese - siamo troppo pronti a indispettirci al primo soffiar di brezza contraria.
E qui viene il colpo di scena, perché Frattini aveva ben più di una ragione per saltare la tappa alla Fiera. A Città del Messico, infatti, abbiamo saputo di un guasto all'aereo di stato. Nulla di grave: un'avaria che ci avrebbe permesso di volare sulla terra, ma sconsigliava una transvolata oceanica. Alla velocità della luce il cerimoniale della Farnesina si è mosso per organizzare il rientro con un volo di linea. Avremmo potuto restare a Città del Messico e partire con un Iberia dopo qualche ora, ma Frattini, che è un gentiluomo, ha detto che sarebbe stato scortese dare buca alla Fiera che ci aveva eletto - primo Paese non di lingua spagnola - ospite d'onore e ha insistito per partecipare, anche solo per pochi minuti, alla kermesse alla quale prendono parte tralaltro 120 scrittori e accademici italiani e 60 case editrici nostrane.
Quindi: di corsa a Guadalajara per un intervento - per quanto fulmineo - di fronte a una marea di gente e al fianco del presidente della Fiera, del governatore dello stato e di un autore premiato. Poi di corsa nel New Jersey per prendere in tempo l'ultimo volo utile per l'Italia: l'Alitalia delle 19,40 da Newark.
Ma non è finita. Il cerimoniale e l'ambasciata a Washington hanno fatto i salti mortali per assicurarsi che su quel volo trovasse posto tutta la delegazione e cioè non solo il ministro e il suo staff e la scorta, ma anche i giornalisti al seguito: in totale 23 persone. "O si parte tutti" aveva detto Frattini, "o non parte nessuno".
Normale? Non direi. Perché c'è un precedente che dimostra il contrario. Il 21 dicembre del 2007 ero a New York al seguito dell'allora ministro degli Esteri Massimo D'Alema per il voto in Assemblea dell'Onu sulla pena di morte. Al momento del rientro, però, qualche genio dell'aeroporto di Westchester - upstate New York - ha sbattuto l'Airbus della presidenza del consiglio contro un cumulo di neve e ha abbozzato una gondola motore. Morale, non si poteva più partire. Capita l'antifona, conoscendo i nostri polli e considerando che si era alla vigilia delle vacanze di Natale, io e gli altri colleghi ci siamo messi a smanettare su internet alla ricerca di un posto su qualunque aereo che ci riportasse in Italia o almeno in Europa. Ma uno dello staff di D'Alema ci ha fermato: dovevamo lasciar fare a loro perché loro avrebbero pensato a tutto e tutti. Qualche ora dopo, però, abbiamo visto il ministro e sua moglie sgattaiolare via alla velocità della luce verso una macchina in attesa. Cosa stava succedendo? Lo stesso tizio dello staff ci ha detto che erano riusciti a trovare solo due posti per il ministro e la consorte e che stava correndo al Jfk per imbarcarsi.
E noi? Il tizio ha allargato le braccia come a dire "ognuno per e Dio per tutti". Peccato però che nel frattempo i voli che avevamo individuato e che non ci avevano fatto prenotare erano già chiusi o belli e partiti, così noi ci siamo trovati in mezzo alla neve ad arrangiarci da soli. O, in alternativa, spendere circa tremila euro per un rientro via Venezia. C'era chi, come me, doveva prendere un traghetto per andare in vacanza; chi aveva lasciato le bambine alla babysitter; chi doveva partire per un'altra missione nel giro di 24 ore. Abbiamo dovuto sganciare cento dollari per tornare a Manhattan e abbiamo pagato un'altra notte d'albergo durante la quale non abbiamo dormito perché l'abbiamo passata a cercare un volo per tornare in Italia. Ci siamo riusciti, ma a cifre folli, anche se non i tremila euro che ci erano stati prospettati.
A questo pensavo quando ho sentito Frattini dire "o tutti o nessuno" e a questo ho ripensato leggendo il sarcastico articolo di Ranieri Polese. Mi domando se, di fronte alla prospettiva di una notte in aeroporto e otto ore in classe economica (cose cui non credo gli inviati della cultura del Corriere siano abituati) avrebbe avuto voglia di essere ancora così sarcastico.
Ma si sa: ci sono uomini e gentiluomini.

venerdì 28 novembre 2008

Sono in finale!

Ce l'abbiamo fatta: Il Corruttore è nella cinquina finalista del Premio Scerbanenco!
Grazie a tutti quelli che mi hanno votato on-line.
Il 4 e il 5 dicembre sarò a Courmayeur per la nomina del vincitore. Sarà dura, ma ce la metterò tutta. Questi sono i finalisti:
Valerio Varesi, Oro, incenso e polvere, Frassinelli 13648 voti
Angelo Petrella, La città perfetta, Garzanti 12171
Paola Barbato, A mani nude, Rizzoli 11368
Ugo Barbara, Il corruttore, Piemme 9140
Tommaso Pincio, Cinacittà, Einaudi 9094

mercoledì 26 novembre 2008

Ma questo testamento biologico cos'è?

Se ne fa un gran parlare, soprattutto per la vicenda di Eluana Englaro, ma quanti realmente sanno cosa è il testamento biologico e quali sono le ragioni che turbano la coscienza dei cattolici e fanno storcere il naso alla Binetti?
Il senatore Ignazio Marino (della cui amicizia ho già avuto occasione di vantarmi in un post di qualche mese fa) ne parla in un'intervista al Magazine del Corriere della Sera. Consiglio a tutti di leggerla. La trovate qui.

martedì 25 novembre 2008

Palermo, le brave persone e le spiagge brasiliane

Voglio resistere alla tentazione di fare il solito pistolotto su Facebook e su quanto miracoloso/pericoloso sia questo strumento (al pari, come abbiamo visto della funzione copia&incolla). Ma voglio raccontarvi di una vecchia conoscenza che mi è capitato di ritrovare sul network. Adesso non saprei neppure dire se sono stato io a ribeccare Giovanni o lui a trovare me. Non è neppure una di quelle conoscenze remote, da scuola elementare, che fanno sobbalzare sula sedia. E' un collega particolarmente simpatico, uno di quelli con cui si lavora bene e che danno sempre l'impressione di essere del genere 'l'acqua li bagna e il vento li asciuga'.
Tutto sommato di lui so pochissimo: che correva nei rally e che aveva avuto uno spaventoso incidente, ad esempio, o che ama cani non particolarmente affabili come i pitbull. Ma soprattutto mi viene in mente l'aria perennemente sconvolta di chi si è appena alzato dal letto e il sorriso affabile con cui accoglie chiunque: dallo stagista fresco fresco di scuola di giornalismo al palermitano transfugo che torna a dare un'occhiata al vecchio nido.
Non è un tipo da invidiare, Giovanni, da temere. Credo sia uno di quelli che si può comodamente inserire nella categoria persone per bene, del genere che non creano problemi e non ne vogliono dagli altri. Forse proprio per questo gli ho sempre riservato una buona porzione di affetto, ma tutto sommato poca attenzione. Da palermitano sono istintivamente propenso a (pre)occuparmi più di chi è una potenziale minaccia piuttosto di chi non cerca e non procura rogne. E Giovanni è il tipo che le rogne non le cerca e non le crea.
Ogni volta che ci incontriamo sono abbracci, pacche sulle spalle, il rassicurante 'A posto?' ripetuto quella mezza dozzina di volte imposte dall'etichetta palermitana almeno finché non si è davvero certi che dall'altra parte dell'abbraccio o della stretta di mano non è davvero tutto 'a posto'. Qualche chiacchiera, mezzo pettegolezzo e poco altro. Ogni volta che lo saluto per andare via penso che forse avrei dovuto passare più tempo con lui e mi domando cosa me lo abbia impedito. Senza mai, però, trovare una risposta.
A un certo punto me lo sono visto spuntare su Facebook: trasmetteva da una spiaggia brasiliana.
Cavolo! Come nei film!
Non so bene cosa abbia fatto o stia facendo. Non so se ha mollato la famiglia e i pitbull o se siano stati loro a suggerirgli di levarsi un po' di torno per riprendere un po' di quel fiato che una città come Palermo presto o tardi finisce per fare mancare a tutte le persone per bene.
Non so come si andata. So solo che ora sta in Brasile, ha aperto un locale che si chiama 'La Tavernetta' su una spiaggia meravigliosa e ha la faccia di un uomo felice.
L'aria di uno che si sveglia la mattina ed è felice, davvero.
Io stamattina mi sono svegliato e mi sono chiesto se questa settimana riuscirò a far fronte ai 100mila impegni che ho preso.
Quando qualche giorno fa guardavo la mia agenda con grande perplessità mi ha suggerito: "futtitinni, Ughetto!"
Ora la domanda è: chi è più fico? Io che la mattina mi domando quanto tempo mi farà perdere la pioggia sulla Cassia o lui che la mattina guarda il mare e pensa che tutto sommato se anche piove sulla sua spiaggia non è questo gran danno?

domenica 16 novembre 2008

Andiamo a prenderci lo Scerbanenco!

Mobilitiamoci! E' il momento di vincere il Premio Scerbanenco e per una volta che i lettori possono dire la loro è il caso di non perdere l'occasione e farsi sotto. Andate sul sito www.noirfest.com/cerba.asp e votate per Il Corruttore.

venerdì 7 novembre 2008

Generazione Copia & Incolla

Sono convinto che Fermi non pensasse alla bomba quando maneggiava l'atomo e ne intuiva le potenzialità rivoluzionarie. E sono convinto che Bill Gates o chiunque abbia inventato la funzione copia e incolla per Windows, non avesse in mente schiere di studenti pigri e poco furbi che avrebbero saccheggiato il web per le loro tesi.
E invece è andata in un altro modo.
Ma c'è una storia in particolare che merita di essere raccontata, perché la dice lunga su quanto sia stato ingenuo io a fidarmi degli studenti e quanto possano essere stupidi alcuni di loro.
Tempo fa una studentessa ha discusso una tesi con me. Non era neppure una mia allieva: l'avevo ereditata da una docente che andava in pensione e che me l'aveva presentata con lodi sperticate. Effettivamente sembrava meno sprovveduta di altre, ma forse derivava dal fatto che avesse qualche anno più della media. Ma pazienza: era del vecchio ordinamento e sembrava appassionata al tema che aveva scelto per la tesi. Ha impiegato un bel po' di tempo per mettere insieme il materiale, ma io le ho dato una mano per intervistare alcuni esperti e trovare i libri giusti. Arrivati alla laurea si è presentata con un lavoro davvero notevole. Una delle migliori tesi su cui abbia messo le mani. E l'esposizione è stata brillante e accattivante. Perfetto! Si è beccata il massimo dei punti possibili e soprattutto i complimenti del Preside e la proposta per la pubblicazione.
Qualche settimana più tardi mi ha richiamato per sollecitare la pubblicazione e io mi sono rivolto al Preside perché fosse avviato l'iter. Morcellini, persona di grande generosità, si è dichiarato disponibile e la macchina si è messa in moto.
E subito si è fermata.
Sapete perché? Perché c'è una cosa che non sapevo e che evidentemente non sapeva neppure la mia tesista: la prima cosa che si fa su una tesi con dignità di pubblicazione è di verificare che non sia stata copiata da un altro lavoro. C'è un omino addetto a questo. Sta lì e si spulcia tutte le tesi. E siccome ha molta più esperienza di me, sa che basta fare dei carotaggi per scoprire la fregatura. Il carotaggio è semplicissimo: si prende un brevissimo paragrafo della tesi e si mette su Google. Se rispunta identico da un'altra parte, allora è copiato. Niente di male se c'è una citazione, ma se non c'è e - peggio - è stato copiato e incollato da un sito che si chiama tesionline.com, allora è una sòla.
Un paio di settimane fa ho ricevuto una costernata telefonata dell'omino di cui sopra. "C'è un problema con la tesi" mi ha detto, "dobbiamo parlarne di persona".
Mi sono trovato davanti a una persona che evidentemente si sentiva a disagio nel dovermi dire che mi ero fatto menare per il naso. "Ma non si preoccupi" ha aggiunto, "è in buona compagnia".
E' risultato che su 30 carotaggi compiuti, 25 sono positivi. Il che, se la matematica non è un opinione e la statistica ha ancora un qualche valore, significa che sei quinti della tesi sono copiati.
Niente pubblicazione, ovviamente, ma la cosa non finisce qua. Perché quello che probabilmente molti di questo furbastri non valutano quando si armano di copy and paste sono le conseguenze. Che sono pesanti. La prima, più probabile e immediata, è la revoca della laurea. La seconda, più grave, è la denuncia per truffa. Così questo genio del copia e incolla si troverà a 25 anni senza laurea e con un procedimento penale a carico.
Ma quello di cui davvero non riesco a farmi una ragione è: se l'aveva sfangata alla laurea, se si era beccata i complimenti e il massimo del punteggio pur avendo copiato a man bassa, perché mi ha richiamato per sollecitare la pubblicazione?
Forse ho la risposta: la generazione copia e incolla non solo non conosce vergogna, ma ha piena fiducia nel clima di impunità che pervade questo Paese. Bene: io non ho intenzione di fargliela passare liscia!

domenica 2 novembre 2008

E mo' magnateve pure questo!

La chiusura dell'Ospedale San Giacomo a Roma non è una faccenda locale come può sembrare. E' la prova provata (quella che ora si chiama smokin' gun) di quello che un gruppo di costruttori sta portando avanti da anni con il beneplacito delle amministrazioni Marrazzo e Zingaretti. A riprova che se pecunia non olet il mattone non ha colore, uno degli ospedali storici di Roma, essenziale per servire il cuore della capitale e sede di alcuni centri di eccellenza oltre che di un reparto di cardiochirurgia appena rinnovato, sarà smantellato per far posto a un prestigioso residence. Con la benedizione delle amministrazioni di sinistra. Altri due ospedali - il Forlanini (!) e il Regina Elena - chiuderanno i battenti a breve nell'ambito di uno scellerato piano di ridimensionamento della sanità pubblica in una città in cui la popolazione continua a crescere a dismisura.
Ma la vera quadratura nel cerchio è stata scongiurata. Chi si è accaparrato il palazzetto storico del San Giacomo è lo stesso personaggio che premeva perché il Pincio fosse sventrato e trasformato in un allucinante parcheggio che sarebbe stato funzionale solo e soltanto ai suoi interessi e a quelli degli ospiti del suo residence. Non sarà servito a molto, ma almeno un po' gli ha guastato la festa...

domenica 26 ottobre 2008

I film francesi sono una mattonata

Che problema hanno i registi francesi con il ritmo? Cos'è che proprio gli impedisce di metterne un po' nei loro film? E soprattutto: perché ogni volta che vado a vedere un film francese me ne pento?
Ieri sera siamo andati al cinema. Il che, per noi, è un piccolo evento, perché negli ultimi mesi siano stati costretti per varie ragioni a contingentare talmente tanto le nostre uscite che nell'elenco delle ultime volte posso ascrivere quasi esclusivamente film per ragazzi. Niente di male: mi piacciono i film per ragazzi, ma a dire il vero mi sarebbe piaciuto andare a vedere 'Il Divo' o 'Gomorra' o anche 'The hurt locker' e non so quante altre pellicole per le quali ho pensato "cavolo, questo non lo posso proprio perdere". E invece li ho persi. Perché alla fine se ho tempo per andare a cinema e questo coincide con la possibilità di andarci con i bambini, allora diventa un'occasione imperdibile. E quindi Sorrentino, Garrone e Bigelow possono attendere il passaggio su Sky o l'uscita in dvd.
Ma ieri è stato diverso. Cena con una coppia di amici in un delizioso ristorante cinese in Prati (ci vuole coraggio per andare dal cinese di questi tempi, dite? Beh, me l'aveva consigliato lo staff di AgiChina24 quindi stavo tranquillo) e poi cinema. Per dire la verità non è che in un raggio ragionevole ci fosse da scialare: pochi titoli davvero interessanti. Ma soprattutto avevo curiosità di vedere 'La Classe' del quale ho letto lodi sperticate, ho visto grandi critiche...
UNA MATTONATA MICIDIALE! Due ore e un quarto di docu-film su una classe di una scuola media del XX arrondisment di Parigi dove alunni immigrati da ogni parte del globo terracqueo polemizzano con un professore troppo debole su qualunque cosa.
Non è un brutto film, ma non si può massacrare lo spettatore con un quarto d'ora di dissertazione sul funzionamento del consiglio disciplinare e poi liquidare la sessione del consiglio con 5 minuti di scena priva di alcuna emozione. Si potevano serenamente tagliare 35 minuti e soprattutto si poteva dare un po' di tensione. Come accadeva ne 'La Haine' di Kassovitz, quello sì un gran film (profetico) sulle banlieue.
A vedere 'La classe' viene voglia di insegnare per salvare orde di giovani da loro stessi; di prendere a calci nel sedere i tredicenni insolenti; di aumentare lo stipendio dei Prof, ma soprattutto, ahimè, viene voglia di sbadigliare. E si rafforza la mia diffidenza nei confronti dei film che vengono premiati a Cannes.
Ritmo, ragazzi, ritmo!

giovedì 16 ottobre 2008

Massimo rispetto

Questo sarà probabilmente il milionesimo post dedicato a Roberto Saviano. Io, poi, dovrei essere l’ultimo a parlare dato che non ho letto il libro e non ho visto il film. Ma ormai tutti parlano di Gomorra come se ne fossero il ghost writer, o amici fraterni dell’autore o ancora grandi esperti di camorra. Ne ho sentite di tutti i colori. All’aeroporto di Torino, di ritorno dalla Fiera del Libro, un amico ed esperto di criminalità organizzata mi tesseva le lodi della Mondatori, capace di creare a tavolino un fenomeno come Gomorra e di riuscire a mantenerne il controllo. Qualche giorno dopo un giornalista di un grande quotidiano napoletano mi faceva notare che tutto sommato Saviano se l’era andata a cercare, perché solo un ingenuo o uno sprovveduto si mette a fare nomi e cognomi e poi spera di farla franca. A un convegno dove parlavano giovani scrittori rosiconi, uno dei peggiori autori che l’Italia abbia partorito negli ultimi dieci anni diceva – premettendo di nutrire grande stima per l’amico Saviano – che Gomorra non deve essere considerato un romanzo perché non è scritto come un romanzo, che Saviano neppure si sente uno scrittore e che questo fenomeno non fa che inquinare la vera letteratura. Io mi limito a condividere l’opinione di Giovanni Puglisi, secondo il quale a Gomorra e a Saviano si deve un merito straordinario: l’aver riportato la scrittura nella sfera dell’impegno civile. Dopo anni in cui si poteva prendere la penna in mano solo per essere militanti (bleah!) e dopo anni in cui si doveva scrivere solo per raccontare se stessi e quello che ruota intorno al proprio ombelico (doppio bleah!) finalmente si riscopre il valore civile, rivoluzionario della cultura. Non di quella che si fa nelle università e nei salotti, ma di quella che nasce dall’esperienza di un vissuto anche professionale che porta un ragazzo di 28 anni a sembrare mio nonno e a girare con la scorta. E questo con buona pace di quella clamorosa balla che sono le rivelazioni del pentito sul piano per uccidere prima di Natale (!) Saviano e gli agenti che lo proteggono e del padre dell’autore che, magari credendo di fargli un buon servigio, ha raccontato a mezza Italia che suo figlio a tredici anni aveva già letto Il Capitale di Marx.
Personalmente a quell’età ero fermo a Cronin e impazzivo per Topolino.

domenica 12 ottobre 2008

Perchè non a Vercelli?

Quando mi è stata mandata la copia di questa lettera ho riso a crepapelle per un pezzo. Poi mi è sorto un interrogativo pieno di sgomento. Perchè l'autore di questa delirante missiva è di Agrigento (che ha dato i natali a Pirandello) e non di Vercelli (che non ha dato i natali a nessuno, se non a Giovanni Antonio Bazzi meglio conosciuto come Il Sodoma)?
E' un problema di caldo o magari è colpa della mafia. Oppure il continuo incanto della Valle dei Templi o del mare che invoglia troppo a lasciarsi andare.
Oppure è un problema di scuole, di lavoro minorile, di abbandono da parte della società civile.
Se la riforma Gelmini riuscisse a dare una risposta a questo, allora sì che dovrebbero farla santa! Ma mi sa che il calendario è già al completo.
P.S.: i vercellesi non se la prendano: è il primo posto civile che mi è venuto in mente.

lunedì 6 ottobre 2008

ALLARME!

C'è un nuovo ALLARME! E questa volta è l'ALLARME! razzismo. Se non mi sbaglio è stato più o meno sei mesi fa che eravamo in pieno ALLARME! rom. O forse quello era l'ALLARME! romeni o, più generalmente, clandestini.
Quindi, facendo un paio di conti, sei mesi eravamo sotto attacco di plotoni di barbari incivili, mentre oggi siamo noi ad aggredire schiere di indifesi immigrati senza neppure perdere troppo tempo a distinguere tra un nero e un cinese.
Dico noi perché da che mondo è mondo l'ALLARME! è una cosa generica che coinvolge una massa piuttosto ampia di persone, possibilmente un'intera nazione. Come potrebbe essere l'ALLARME! mutui o l'ALLARME! benzina. Ma mentre la rata per la casa e il costo del pieno sono due elementi oggettivi - voglio vedere chi non si è accorto del rincaro dei carburanti! - il razzismo è una cosa diversa, più delicata e più grave. Perché per una società come la nostra in cui la multiculturalità (che parola complicata!) è un fenomeno relativamente giovane, il ricorso alla violenza per sfogare le tensioni sociali non è un ALLARME! con il quale scherzare.
Con l'ALLARME! mucca pazza si smise di mangiare carne per qualche settimana e poi tutto tornò alla normalità e lo stesso accadde con il pollo all'aviaria. Ma con il razzismo bisogna andarci cauti perché è il genere di ALLARME! che non causa solo danni economici, ma irreparabili danni sociali; che apre ferite profonde e dolorose come quelle inferte dalla rivolta di Los Angeles del 1992.
La donna somala che denuncia di essere stata umiliata all'aeroporto di Fiumicino è una Rodney King in salsa italiana? No. E chi cerca di spacciarla per tale non sa che incendio rischia di appiccare. Perché tra un ubriaco senza precedenti penali pestato in mezzo alla strada e una donna con precedenti per droga (per quanto lievi) perquisita in un aeroporto c'è un abisso. E la minaccia è dietro l'angolo: la rivolta di Los Angeles cominciò con una matrice razziale, ma nel giro di due ore si trasformò in uno scontro tra gang criminali. Nulla di paragonabile alle rivolta - quella sì razziale - di Watts nel 1965 o a Detroit e Newark. E oggi, dopo la strage di immigrati africani a Castel Volturno, mi sembra che in Italia siamo più vicini alla Los Angeles del 1992 che alla Detroit del 1968.
Quindi, per favore, levate il dito da quel pulsante di ALLARME!

venerdì 3 ottobre 2008

L'immancabile appuntamento con gli Ig-Nobel

Ogni anno li aspetto con trepidazione. Solo il Nobel per la Letteratura mi incuriosisce di più, ma pochi appuntamenti sono esilaranti come quello con gli Ig-Nobel: i Nobel dell'assurdo. E ogni anno cerco di essere io a occuparmene. Oggi, come di consueto in apertura della stagione dei Nobel veri, si sono rinnovati l'appuntamento e le risate. Con una sorpresa: tra i premiati c'è anche un italiano.
Ecco il lancio che ho fatto per l'Agi, ma mi sarei dilungato molto, molto di più...
ITALIANO VINCE NOBEL DELL'ASSURDO TAROCCANDO IL 'CRUNCH' DELLE PATATINE
L'ingannatore di sensi italiano ha vinto il Nobel. Non quello vero, in realta', ma uno degli 'Ig-Nobel', i riconoscimenti assegnati ogni anno alle ricerche piu' assurde dagli 'Annali delle ricerche improbabili' di Harvard. Tra i vincitori di quest'anno c'e' Massimiliano Zampini dell'Universita' di Tento che, insieme a un collega di Oxford, e' riuscito a far credere a una persona che stava addentando una patatina croccante mentre invece era stantia facendole ascoltare in cuffia l'inconfondibile 'crunch' delle chips. Ogni anno, in una cerimonia anarcoide alla vigilia dell'apertura della stagione dei Nobel veri, vengono celebrate le ricerche piu' surreali. E quella di Zampini e' in buona compagnia: per la chimica e' stato premiato lo studio di una scienziata del policlinico di Boston secondo cui la Coca-Cola uccide lo sperma, ma non puo' per questo essere usata come contraccettivo. Per la biologia il premio e' andato a un'equipe francese che ha dimostrato che le pulci del cane saltano molto piu' lungo di quelle del gatto. Per l'economia alla scoperta fatta in New Mexico che per una ballerina di lap dance le mance piu' cospicue corrispondono con il periodo di maggiore fertilita'. Due archeologi brasiliani, poi, si sono guadagnati l'Ig-Nobel grazie a una ricerca che dimostra i danni di cui e' capace un armadillo libero di scorrazzare in un'area archeologica. Il premio per la pace e' invece andato al Comitato etico svizzero per aver sancito il principio che le piante hanno un dimensione morale e una dignita'.

Liberi commenti

Confido negli anti-spam. Per questo ho rimosso la verifica dei commenti da questo blog. Da questo momento avete libero accesso: scatenatevi!

mercoledì 1 ottobre 2008

Vota Gramellini!

"La Stampa" di Torino, nella sua ultima gestione, è uno dei pochissimi giornali leggibili in Italia.
Per me un appuntamento fisso è con il Buongiorno di Massimo Gramellini. Quello di oggi è talmente azzeccato che non posso non rilanciarlo.
Eccolo:
"L’attrice Ramona Badescu è stata nominata consigliere del sindaco di Roma per i rapporti con i romeni (i rapporti con gli uzbeki sono congelati in attesa di trovare un’attrice di madre lingua). La politica Daniela Santanché è stata ingaggiata da Odeon Tv, insieme a Irene Pivetti ed Elisabetta Gardini, una ex onorevole diventata personaggio televisivo e un ex personaggio televisivo diventata onorevole. Se la società degli umani seguisse i criteri dei politici, avremmo dentisti che trapanano radiatori e meccanici che scalpellano carie, parrucchieri che insegnano procedura penale e magistrati che fanno la messa in piega. Sarebbe un mondo elettrico ed estemporaneo. Finirebbe in fretta, ma fra molte risate. Invece quello dei politici resiste perché non è più un mercato specializzato. Prevale chi non sa fare nulla, a patto che non lo sappia fare dappertutto. Un ceto di incompetenti intercambiabili, che può stare su un calendario come al governo, andare in Parlamento sull’onda di un successo (o insuccesso) televisivo e finire in tv sulla scia di un’esperienza parlamentare.Ben ci sta. Ai tempi di Mani Pulite ci accanimmo contro i professionisti della politica. Anziché esigere semplicemente che i componenti di tutti gli organi elettivi dello Stato e degli enti locali venissero dimezzati, per ridurre a cifre accettabili i costi endemici della corruzione, pensammo di risolvere il problema con l’ingresso della fantomatica società civile nelle stanze dei bottoni. Così la politica, che in mano ai politici era una cosa sporca ma seria, è rimasta sporca ed è diventata anche frivola".
Grande, no?

sabato 27 settembre 2008

Cosa siamo andati a fare in Libano

In molti mi hanno chiesto qualcosa di più sulla missione AGI in Libano. Ecco un servizio del Tg2 che spiega cosa siamo andati a fare.

mercoledì 24 settembre 2008

In the mood for writing

Non riesco a scrivere senza musica, anche se a volte non riesco a scrivere con la musica. Accade quando la musica è sbagliata.
Quando i brani che ho scelto (ormai i cd restano a prendere polvere: uso i pezzi che ho scaricato su iTunes) non sono in sintonia con quello che voglio scrivere e la musica diventa una specie di fastidio.
Mi rallenta, mi distrae, fa fuggire le idee. Non è facile trovare la giusta combinazione di musica e umore; si rischia di perdere più tempo a cercare i pezzi che le parole giuste.
Mio cognato - che, per inciso, mezz'ora fa si è laureato in Ingegneria Aerospaziale con 110 e lode (applausi e commozione) - mi ha offerto su un piatto d'argento la soluzione ideale. Si chiama Musicovery, è gratis, è sul web ed è grandiosa.
Non è altro che una piccola consolle sulla quale bisogna indicare di che mood ci si sente (i punti cardinali sono: dark, positivo, energico e calmo e si possono miscelare a piacimento) e il sistema crea automaticamente una formidabile compilation che nove volte su dieci azzecca una sequenza di brani perfetta per mettersi al pc e cominciare a tempestare la tastiera. Provare per credere. Presto o tardi parleremo anche di Genius di iTunes.

giovedì 18 settembre 2008

La magia di Testaccio, il Pizzettiere e gli impavidi di Quattrolibri

Ero in ritardo, come sempre. Mi ero affidato alla illusoria certezza che tanto Testaccio è a un tiro di schioppo dall'Agi e che in una decina di minuti sarei arrivato. Ma non avevo fatto i conti con gli (eterni) lavori su via Marmorata e soprattutto con la cronica carenza di posteggio nel rione XX (suggerimento per quegli scellerati che volevano sforacchiare il Pincio per uno stupido, inutile, ridicolo parcheggio per straricchi: andate a farlo a Testaccio un parcheggio se proprio vi scappa).
Fatto sta che quando sono arrivato in piazza Santa Maria Liberatrice sono rimasto a bocca aperta. Prima perché non c'ero mai stato (ahimè come romano d'adozione faccio davvero schifo) e poi perché erano anni che non vedevo più una piazza vera, di quelle cioè con i giochi per i bambini nel mezzo, una marea di gente vociante, gli uccelletti a fare un chiasso di inferno sui rami e decine di botteghe una a fianco all'altra e nessuna che superi le due vetrine, quasi a non voler togliere spazio agli altri.
Mi è sempre piaciuto Testaccio, fin da quando, a vent'anni, frequentavo un locale che si chiamava il Classico e che non so neppure se esista ancora.
Ma nella follia della routine quotidiana mi è capitato molto di rado negli ultimi anni di frequentarlo, anche se quasi ogni giorno mi faccio tutta via Marmorata per raggiungere la redazione. Mi basterebbe, a pensarci bene, partire un giorno un'ora prima, mollare la macchina da qualche parte (risate del pubblico) e inoltrarmi per le strade regolari e popolari di quello che probabilmente è uno degli ultimi veri rioni romani. Vabbè, resta come buon proposito.
Fatto sta che ero in ritardo. Rita Charbonnier mi ha telefonato per chiedermi con la cortesia e il tono pacato di cui solo una vera gentildonna come lei può essere capace dove ohibò mi trovassi, dato che aspettavano me per cominciare con Quattro Libri al Bar. Ho mollato la mia macchina vicino a un cassonetto (con gravi rischi perché è talmente sporca che è facile confondersi) e sono arrivato al Pizzettiere.
Dal punto di vista strategico la cosa non poteva essere organizzata meglio. Il Pizzettiere - che, per chi non lo sa, sta lì da 50 anni - è gomito a gomito con la bellissima libreria di Testaccio (posto da frequentare assolutamente, ma in quest'ordine: prima libreria poi pizza perché sennò sfogliando per curiosare lasciate una vaga ombra di olio-mozzarella-fioridizucca sulle pagine) e avevamo a nostra disposizione uno spazio con tavoli, sedie, ombrelloni, microfono e amplificatore.
Com'è andata lo può dire solo chi c'era. Io dico benissimo per un sacco di motivi. Primo perché i passi che abbiamo scelto io, Rita e un collega dell'Espresso di cui non riesco a ricordare il nome anche se me lo sono fatto ripetere tre volte erano bellissimi e poi perché Bruno Contigiani, organizzatore di tutta la manifestazione, può ben dire di aver inanellato un altro successo. Eravamo più o meno una quarantina, ma si aggiungeva gente in continuazione, nell'autentico spirito della cosa. Persone che passavano e restavano incuriosite da questa banda di sciroccati che leggeva ad alta voce e si fermavano per unirsi a loro volta alla banda di non meno sciroccati che li stava ad ascoltare.
Bellissimo! E ancora più bello è stato sentire una signora che chiedeva a Bruno quando si sarebbe ripetuta una cosa così carina. "Fra un anno" le ha risposto Bruno. "Un anno?" ha esclamato la signora sorpresa e indignata, prima di correre a protestare con il proprietario della libreria (che non c'entrava nulla) che lei non ci pensava neppure ad aspettare un altro anno per star dietro a un pugno di illusi che si alza in piedi nel mezzo di un bar e si mette a leggere pagine scelte da un libro.
Magari un bel libro.

sabato 13 settembre 2008

Per non dimenticare Graziella Campagna

Qualcuno di voi, consultando la mia agenda, avrà visto che il 26 settembre sarò a Palermo per partecipare alle Giornate della Legalità. Sarà occasione per presentare nuovamente La Scelta, una raccolta di racconti voluta dalla casa editrice 'Novantacento' per ricordare le vittime di mafia. Nel racconto La stiratrice di Saponara ho scelto di parlare di Graziella Campagna, una ragazza della provincia di Messina uccisa a 18 anni per aver visto una cosa che non doveva vedere. La prima presentazione del volume è stata nel novembre scorso: occasione per un interessante confronto tra gli autori della raccolta - Antonio Ingroia, Filippo D'Arpa, Daniele Billitteri e Domenico Seminerio - e personaggi come Andrea Vecchio, Nino Salerno e Rodolfo Guajana che Radio Radicale ha registrato e conserva nei suoi archivi. La trovate qui. Buon ascolto.

giovedì 11 settembre 2008

I teutonici vandali di Pompei

Sono facile all'indignazione. E' un mio limite, forse, ma cose come i graffiti sul ponte di Corso Francia; la gente senza casco sui motorini o senza cintura in auto e quelli che saltano le file mi mandano in bestia. E mi capita di cadere nella trappola del qualunquismo e di pensare cose come: "in Germania questo non succederebbe" o "in Giappone gli taglierebbero una mano".
Mi sono dovuto ricredere.
Abbiamo portato i bambini a Pompei. Lucrezia ha appena studiato i romani, Leonardo è un appassionato di storia e ci è sembrato il posto più logico. Giravano per le vie della città con la bocca spalancata e uno stupore senza fine, proprio come quelle decine di turisti stranieri che in gruppi serrati come centurie passavano da una casa all'altra ammirando lo splendore di mosaici e affreschi e impallidendo di fronte all'incuria e alla pietosa scena dei (pochi) guardiani addormentati sulle sedie.
Io un po' mi beavo, di nuovo preda di un italico qualunquismo. "Ecco" pensavo tra me e me, "voi questo a casa vostra non ce l'avete". E ammiravo il contegno con cui si muovevano tra le rovine. Anzi del contegno con cui mi illudevo si muovessero tra le rovine. Perché ad un tratto hanno cominciati a saltarmi agli occhi alcuni particolari. Come la trippona che nella Casa di Stefano appoggiava immense natiche teutoniche alla vasca affrescata nella quale il tintore di duemila anni fa immergeva le sue stoffe. O i due adolescenti che toccavano con le mani sudate i delicati dipinti sulle pareti.
"Papà, quelli toccano" ha detto Leonardo guardandoli indignato.
"Lo vedo" è stata l'unica cosa che sono stato capace di dire.
Quando mi sono avvicinato a loro per rimproverarli li ho sentiti parlare in tedesco.
Ma come? Non dovevano essere il faro della civiltà europea? L'esempio di ordine e buon comportamento. Non erano quelli che trent'anni fa schiaffavano sulla copertina dello Spiegel un piatto di spaghetti condito con una pistola facendoci vergognare a morte dell'italico tasso criminale? Non erano quelli che poche settimane fa accusavano il Festival del Cinema di Venezia di provincialismo? Non erano quelli che, sempre sullo Spiegel, spiegavano con dotto piglio perché gli italiani, un tempo così amati oggi non lo sono più?
Virginia - l'amica che era in viaggio con noi - è stata più veloce di me. Ha urlato alla guida del gruppo di stare attenta a dove il suo gregge metteva le zampe. Ma quella (per la cronaca, una guida della Msc Crociere) si è limitata a stringersi nelle spalle come a dire "sapete quante volte gliel'ho ripetuto?".
La trippona ha finalmente sollevato le chiappe dalla vasca e i ragazzini hanno graziato l'affresco sopravvissuto al Vesuvio per andare a fare danni da un'altra parte.
E a me è rimasta sulla punta della lingua il rimprovero e nel fegato la rabbia per non aver agito più in fretta. Rimuginando insulti mi sono avviato lungo la strada e giusto pochi passi oltre ho trovato un'altra sorpresa. Due ragazze giapponesi guardavano una finestra e poi confabulavano tra loro. Con i miei trenta centimetri in più di altezza riuscivo a vedere che oltre quella finestra si poteva spiare nel giardino di una villa patrizia, ma sarebbe bastato spostarsi mezzo metro più in là per godere dello stesso spettacolo attraverso la porta aperta. Ma loro no: dovevano provare l'emozione del free-climbing. Così una si è arrampicata su una pietra sporgente e si è sollevata fino ad altezza di occhi. Ma Pompei, si sa, non è fatta di cemento armato e se ha resistito alla cenere del Vesuvio, non può reggere il peso di un obiettivo Nikon 70-210 che si porta appresso 40 chili di giapponesina. Così la pietra ha ceduto, la nippoturista è rimasta appesa alla finestra come Willy Coyote e un pezzo di muratura che duemila anni fa un manovale aveva sistemato con cura bestemmiando in latino contro il caldo è rotolato via.
"Ehi!" ho urlato. Quella appesa è caduta come una pera dall'albero; quell'altra mi ha guardato come se l'avessi appena sorpresa a spacciare eroina davanti a un asilo nido. Avrei potuto spiegare in inglese le ragioni della mia rabbia, ma non l'ho fatto neppure in italiano. Ho fatto ricorso all'intonazione minacciosa che solo un certo tipo di accento palermitano può rendere. Eppure credo che abbiano capito.
Anche i miei figli hanno capito. "Se continua così, fra dieci anni qui non resterà più niente" hanno borbottato, carichi di una sana, italica indignazione.
P.S.: la foto è stata scattata senza flash per non danneggiare l'affresco. Ma ero l'unico a usare questa accortezza.