E’ stato un peccato aver conosciuto Husni Zeina così tardi. Per descrivere l’intelligenza e l’ironia del comandante in capo di Al-Jana servirebbe un post a sé e state certi che lo farò. Nelle poche ore che abbiamo trascorso con lui ho avuto un assaggio di quella che è una delle tante anime di Beirut, forse la più disastrata e sconnessa: l’anima palestinese.
Ci ha proposto di andare a bere una cosa in riva al mare per fare un primo bilancio della nostra esperienza. Siamo saliti sulla sua Volvo bianca che ha almeno 20 anni e puzza di benzina come un’autocisterna, ma ha l’aria condizionata funzionante. Io e lui davanti; Lucio, Hana e Imad Shouli, l’amministratore di Al-Jana (un uomo dall’aria paciosa che non abbandona mai il suo masbaha, il rosario islamico) dietro. Mi ha guardato e ha sorriso. “Se fossimo nel sud penserebbero che siamo Hezbollah” ha detto. Perché? “Perché abbiamo la barba e guidiamo una Volvo”. Buono a sapersi.
Abbiamo fatto una breve sosta in un campo profughi palestinese. “Uno dei meno disastrati” ha tenuto a specificare Husni mentre percorrevamo a piedi vicoli così stretti da lasciar passare una persona sola. Abbiamo visitato una mostra mercato di opere d’arte di bambini seguiti da un’altra Ong. Ho colto qualche battuta che mi ha lasciato intendere che anche tra le Ong palestinesi – come tra quelle italiane – ci si dispensa sorrisi e buone intenzioni, ma non si esita a ringhiare se qualcuno mette piede nel terreno di qualcun altro.
Ci eravamo appena rimessi in marcia verso il nostro aperitivo alla libanese, quando Husni ci ha annunciato che avremmo fatto un’altra breve deviazione. “Dobbiamo andare a un funerale” ha detto. Usando il plurale.
Quando gli ho visto puntare il muso della Volvo verso l’ingresso del Movenpick, ho pensato che doveva aver cambiato idea. Ha affidato la macchina al valet service (che non ha fatto una piega anche se l’auto davanti alla nostra era una Mercedes nuova di zecca e quella dietro una cabrio da lungomare di Santa Monica) e ci ha condotto attraverso l’atrio di quello che è uno degli alberghi più lussuosi di Beirut. Ha chiesto al concierge che lo ha indirizzato verso una piccola sala.
Lì un suo amico piangeva la morte della madre. Due file di sedie, vassoi di dolci alla mandorla e un leggio per chi, dandosi il cambio senza interruzioni, deve leggere il Corano. Tre baci sulle guance che contraddistinguono il saluto beirutino; una vigorosa stretta di mano; alcune sure lette ad alta voce e poi di nuovo i saluti.
Le porte dell’ascensore si sono aperte nella lobby. In un mano avevamo la copia del Corano che la famiglia del defunto regala agli amici, negli occhi il sole che affondava nel Mediterraneo.
Il tramonto di Beirut era pronto a regalarci sollievo da una giornata afosa.
Ci ha proposto di andare a bere una cosa in riva al mare per fare un primo bilancio della nostra esperienza. Siamo saliti sulla sua Volvo bianca che ha almeno 20 anni e puzza di benzina come un’autocisterna, ma ha l’aria condizionata funzionante. Io e lui davanti; Lucio, Hana e Imad Shouli, l’amministratore di Al-Jana (un uomo dall’aria paciosa che non abbandona mai il suo masbaha, il rosario islamico) dietro. Mi ha guardato e ha sorriso. “Se fossimo nel sud penserebbero che siamo Hezbollah” ha detto. Perché? “Perché abbiamo la barba e guidiamo una Volvo”. Buono a sapersi.
Abbiamo fatto una breve sosta in un campo profughi palestinese. “Uno dei meno disastrati” ha tenuto a specificare Husni mentre percorrevamo a piedi vicoli così stretti da lasciar passare una persona sola. Abbiamo visitato una mostra mercato di opere d’arte di bambini seguiti da un’altra Ong. Ho colto qualche battuta che mi ha lasciato intendere che anche tra le Ong palestinesi – come tra quelle italiane – ci si dispensa sorrisi e buone intenzioni, ma non si esita a ringhiare se qualcuno mette piede nel terreno di qualcun altro.
Ci eravamo appena rimessi in marcia verso il nostro aperitivo alla libanese, quando Husni ci ha annunciato che avremmo fatto un’altra breve deviazione. “Dobbiamo andare a un funerale” ha detto. Usando il plurale.
Quando gli ho visto puntare il muso della Volvo verso l’ingresso del Movenpick, ho pensato che doveva aver cambiato idea. Ha affidato la macchina al valet service (che non ha fatto una piega anche se l’auto davanti alla nostra era una Mercedes nuova di zecca e quella dietro una cabrio da lungomare di Santa Monica) e ci ha condotto attraverso l’atrio di quello che è uno degli alberghi più lussuosi di Beirut. Ha chiesto al concierge che lo ha indirizzato verso una piccola sala.
Lì un suo amico piangeva la morte della madre. Due file di sedie, vassoi di dolci alla mandorla e un leggio per chi, dandosi il cambio senza interruzioni, deve leggere il Corano. Tre baci sulle guance che contraddistinguono il saluto beirutino; una vigorosa stretta di mano; alcune sure lette ad alta voce e poi di nuovo i saluti.
Le porte dell’ascensore si sono aperte nella lobby. In un mano avevamo la copia del Corano che la famiglia del defunto regala agli amici, negli occhi il sole che affondava nel Mediterraneo.
Il tramonto di Beirut era pronto a regalarci sollievo da una giornata afosa.
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