Oggi sembra una buona giornata. Fino ad ora non ci sono stati black-out, l’aria condizionata funziona e persino il collegamento internet sembra essere più veloce del solito. Mi hanno avvertito di non farmi illusioni: non durerà. Eppure mi stupisce scoprire di essere meno ottimista di questi ragazzi. Ieri abbiamo fatto un giro fulmineo a Sabra e Chatila e mi sono reso conto che sono tutti più fortunati di quel magma di gente che anima i campi profughi. Vengono da realtà senza dubbio meno confortevoli di quelle di cui possono godere i libanesi di Hamra o di Jemmayze, ma parlano un ottimo inglese, sono ben vestiti e hanno il look curato di tanti loro coetanei occidentali. Hanno tra i 20 e i 22 anni e la maggior parte di loro non apparirebbe estraneo in una strada di Palermo. Nour ha la bellezza di una principessa siriana; Mohammed l’esuberante arroganza di un ragazzo dello Zen troppo in gamba per rassegnarsi a una vita di espedienti. Sono la promessa di questa città, ma loro si considerano soprattutto la promessa del loro popolo: i palestinesi.
Sono nati il Libano da genitori nati in Libano, ma vivono nella profonda convinzione che sia soltanto questione di tempo e un giorno anche loro avranno la terra che gli spetta. Peccato che più a sud, oltre il confine che nelle carte geografiche libanesi è segnato come palestinese e non israeliano, vivano milioni di persone che la pensano allo stesso modo, che gli assomigliano nei volti, nei modi e nella vivace intelligenza, ma praticano una religione diversa.
Stiamo cercando di fargli comprendere che c’è un modo per affermare se stessi lasciando da parte parole come resistenza e rassegnazione: comunicando. Ne sono in parte consapevoli. La maggior parte di loro sono dei draghi con il pc; si muovono su Internet con la stessa dimestichezza con cui si orientano per le strade di Cola senza nomi né numeri civici. Eppure non sanno ancora bene cosa comunicare. Immagino covino una buona dose di rabbia e frustrazione dentro di sé, ma qui non lo danno a vedere. Sugli sfondi dei loro laptop – su cui campeggiano disegni che li aiutano a immaginare una Palestina libera – si aprono in continuazione i pop-up dei loro amici che li invitano a chattare su Messenger. Parlano di musica, di cinema, di amori. Eppure nelle loro coscienze pulsa l’urgenza di raccontare al mondo qualcosa di diverso: la loro quotidianità, le loro aspettative, le loro ambizioni.
Nella convinzione che al di là della rete ci sia qualcuno pronto ad ascoltarli.
Non basterà e lo sanno. Devono farsi riflesso di una realtà che l’Occidente fatica a comprendere, ma senza necessariamente inseguire la chimera dei facilitatori alla costante ricerca di una mediazione a ogni costo. Quello che vogliono è raccontare, attraverso musica, immagini e parole. Spero solo che riusciremo ad aiutarli.
Mentre scrivo è arrivato il pranzo. Lucio – il collega che tiene il corso con me – annuncia la pausa mentre nel piccolo appartamento al quarto piano (l’ascensore c’è, ma per i frequenti black-out non è consigliabile utilizzarlo) si diffonde l’odore del mloukhieh che solletica il nostro appetito.
Sono nati il Libano da genitori nati in Libano, ma vivono nella profonda convinzione che sia soltanto questione di tempo e un giorno anche loro avranno la terra che gli spetta. Peccato che più a sud, oltre il confine che nelle carte geografiche libanesi è segnato come palestinese e non israeliano, vivano milioni di persone che la pensano allo stesso modo, che gli assomigliano nei volti, nei modi e nella vivace intelligenza, ma praticano una religione diversa.
Stiamo cercando di fargli comprendere che c’è un modo per affermare se stessi lasciando da parte parole come resistenza e rassegnazione: comunicando. Ne sono in parte consapevoli. La maggior parte di loro sono dei draghi con il pc; si muovono su Internet con la stessa dimestichezza con cui si orientano per le strade di Cola senza nomi né numeri civici. Eppure non sanno ancora bene cosa comunicare. Immagino covino una buona dose di rabbia e frustrazione dentro di sé, ma qui non lo danno a vedere. Sugli sfondi dei loro laptop – su cui campeggiano disegni che li aiutano a immaginare una Palestina libera – si aprono in continuazione i pop-up dei loro amici che li invitano a chattare su Messenger. Parlano di musica, di cinema, di amori. Eppure nelle loro coscienze pulsa l’urgenza di raccontare al mondo qualcosa di diverso: la loro quotidianità, le loro aspettative, le loro ambizioni.
Nella convinzione che al di là della rete ci sia qualcuno pronto ad ascoltarli.
Non basterà e lo sanno. Devono farsi riflesso di una realtà che l’Occidente fatica a comprendere, ma senza necessariamente inseguire la chimera dei facilitatori alla costante ricerca di una mediazione a ogni costo. Quello che vogliono è raccontare, attraverso musica, immagini e parole. Spero solo che riusciremo ad aiutarli.
Mentre scrivo è arrivato il pranzo. Lucio – il collega che tiene il corso con me – annuncia la pausa mentre nel piccolo appartamento al quarto piano (l’ascensore c’è, ma per i frequenti black-out non è consigliabile utilizzarlo) si diffonde l’odore del mloukhieh che solletica il nostro appetito.
1 commento:
hey Ugo..
we really had a good time together..thanks for teaching us such incredible things..
see you in Palermo..
ciao..
Maya
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