La scena è questa: stazione di Carrara, poco prima delle otto del mattino di domenica.
Aspettiamo il treno che ci riporterà a Roma dopo la serata al Bancarella per promuovere 'Il muro invisibile' di Harry Bernstein, candidato della Piemme.
Come sempre compro il 'Sole 24 Ore' per dedicarmi all'inserto domenicale. A pagina 4 c'è una sorpresa. Una gran bella sorpresa: la recensione de 'Il Corruttore'.
Leggo...
(...) un narratore si giochi l'interesse e la simpatia di chi legge nelle prime 20-30 pagine (...) Ugo Barbàra appartiene alla categoria degli autori che passano con lode il test delle prime 30 pagine. Ci stupisce però che non goda ancora di tutta la popolarità che si merita (...) Barbàra sa anche creare da subito, nelle sue trame vicine al thriller, ma percorse da un non ingombrante senso etico e dall'amarezza della sconfitta, l'aspettativa per qualcosa che deve accadere (...)
La firma è quella di Giovanni Pacchiano, alle cui scelte da anni mi affido per scommettere le ore della lettura.
Leggo e sorrido. Sono soddisfazioni!
Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile
lunedì 30 giugno 2008
Intervista al Tg2
Ecco l'intervista che Laura Gialli mi ha fatto per il Tg2. Non male l'accostamento al vecchio George...
venerdì 27 giugno 2008
Beirut: i casi generati dal caos
Beirut è la città delle esperienze surreali. Ora che sembra rappacificata, può tornare a riempire la propria quotidianità di straordinarie contraddizioni ed eventi improbabili.
Anche se credo che a considerarli tali siano solo quelli come me che Beirut l’hanno vissuta solo per qualche giorno, mi sono convinto che parte del fascino di questa città siano le coincidenze che è capace di regalare. E le coincidenze accadono solo in quei luoghi in cui a governare è il caso… e di tanto in tanto il caos.
Dal funerale alla Libanese a un incontro inatteso al Caffè degli Specchi ho tante storie da raccontare.
Anche se credo che a considerarli tali siano solo quelli come me che Beirut l’hanno vissuta solo per qualche giorno, mi sono convinto che parte del fascino di questa città siano le coincidenze che è capace di regalare. E le coincidenze accadono solo in quei luoghi in cui a governare è il caso… e di tanto in tanto il caos.
Dal funerale alla Libanese a un incontro inatteso al Caffè degli Specchi ho tante storie da raccontare.
Funerale alla libanese
E’ stato un peccato aver conosciuto Husni Zeina così tardi. Per descrivere l’intelligenza e l’ironia del comandante in capo di Al-Jana servirebbe un post a sé e state certi che lo farò. Nelle poche ore che abbiamo trascorso con lui ho avuto un assaggio di quella che è una delle tante anime di Beirut, forse la più disastrata e sconnessa: l’anima palestinese.
Ci ha proposto di andare a bere una cosa in riva al mare per fare un primo bilancio della nostra esperienza. Siamo saliti sulla sua Volvo bianca che ha almeno 20 anni e puzza di benzina come un’autocisterna, ma ha l’aria condizionata funzionante. Io e lui davanti; Lucio, Hana e Imad Shouli, l’amministratore di Al-Jana (un uomo dall’aria paciosa che non abbandona mai il suo masbaha, il rosario islamico) dietro. Mi ha guardato e ha sorriso. “Se fossimo nel sud penserebbero che siamo Hezbollah” ha detto. Perché? “Perché abbiamo la barba e guidiamo una Volvo”. Buono a sapersi.
Abbiamo fatto una breve sosta in un campo profughi palestinese. “Uno dei meno disastrati” ha tenuto a specificare Husni mentre percorrevamo a piedi vicoli così stretti da lasciar passare una persona sola. Abbiamo visitato una mostra mercato di opere d’arte di bambini seguiti da un’altra Ong. Ho colto qualche battuta che mi ha lasciato intendere che anche tra le Ong palestinesi – come tra quelle italiane – ci si dispensa sorrisi e buone intenzioni, ma non si esita a ringhiare se qualcuno mette piede nel terreno di qualcun altro.
Ci eravamo appena rimessi in marcia verso il nostro aperitivo alla libanese, quando Husni ci ha annunciato che avremmo fatto un’altra breve deviazione. “Dobbiamo andare a un funerale” ha detto. Usando il plurale.
Quando gli ho visto puntare il muso della Volvo verso l’ingresso del Movenpick, ho pensato che doveva aver cambiato idea. Ha affidato la macchina al valet service (che non ha fatto una piega anche se l’auto davanti alla nostra era una Mercedes nuova di zecca e quella dietro una cabrio da lungomare di Santa Monica) e ci ha condotto attraverso l’atrio di quello che è uno degli alberghi più lussuosi di Beirut. Ha chiesto al concierge che lo ha indirizzato verso una piccola sala.
Lì un suo amico piangeva la morte della madre. Due file di sedie, vassoi di dolci alla mandorla e un leggio per chi, dandosi il cambio senza interruzioni, deve leggere il Corano. Tre baci sulle guance che contraddistinguono il saluto beirutino; una vigorosa stretta di mano; alcune sure lette ad alta voce e poi di nuovo i saluti.
Le porte dell’ascensore si sono aperte nella lobby. In un mano avevamo la copia del Corano che la famiglia del defunto regala agli amici, negli occhi il sole che affondava nel Mediterraneo.
Il tramonto di Beirut era pronto a regalarci sollievo da una giornata afosa.
Ci ha proposto di andare a bere una cosa in riva al mare per fare un primo bilancio della nostra esperienza. Siamo saliti sulla sua Volvo bianca che ha almeno 20 anni e puzza di benzina come un’autocisterna, ma ha l’aria condizionata funzionante. Io e lui davanti; Lucio, Hana e Imad Shouli, l’amministratore di Al-Jana (un uomo dall’aria paciosa che non abbandona mai il suo masbaha, il rosario islamico) dietro. Mi ha guardato e ha sorriso. “Se fossimo nel sud penserebbero che siamo Hezbollah” ha detto. Perché? “Perché abbiamo la barba e guidiamo una Volvo”. Buono a sapersi.
Abbiamo fatto una breve sosta in un campo profughi palestinese. “Uno dei meno disastrati” ha tenuto a specificare Husni mentre percorrevamo a piedi vicoli così stretti da lasciar passare una persona sola. Abbiamo visitato una mostra mercato di opere d’arte di bambini seguiti da un’altra Ong. Ho colto qualche battuta che mi ha lasciato intendere che anche tra le Ong palestinesi – come tra quelle italiane – ci si dispensa sorrisi e buone intenzioni, ma non si esita a ringhiare se qualcuno mette piede nel terreno di qualcun altro.
Ci eravamo appena rimessi in marcia verso il nostro aperitivo alla libanese, quando Husni ci ha annunciato che avremmo fatto un’altra breve deviazione. “Dobbiamo andare a un funerale” ha detto. Usando il plurale.
Quando gli ho visto puntare il muso della Volvo verso l’ingresso del Movenpick, ho pensato che doveva aver cambiato idea. Ha affidato la macchina al valet service (che non ha fatto una piega anche se l’auto davanti alla nostra era una Mercedes nuova di zecca e quella dietro una cabrio da lungomare di Santa Monica) e ci ha condotto attraverso l’atrio di quello che è uno degli alberghi più lussuosi di Beirut. Ha chiesto al concierge che lo ha indirizzato verso una piccola sala.
Lì un suo amico piangeva la morte della madre. Due file di sedie, vassoi di dolci alla mandorla e un leggio per chi, dandosi il cambio senza interruzioni, deve leggere il Corano. Tre baci sulle guance che contraddistinguono il saluto beirutino; una vigorosa stretta di mano; alcune sure lette ad alta voce e poi di nuovo i saluti.
Le porte dell’ascensore si sono aperte nella lobby. In un mano avevamo la copia del Corano che la famiglia del defunto regala agli amici, negli occhi il sole che affondava nel Mediterraneo.
Il tramonto di Beirut era pronto a regalarci sollievo da una giornata afosa.
mercoledì 25 giugno 2008
Breakfast in Cola
Oggi sembra una buona giornata. Fino ad ora non ci sono stati black-out, l’aria condizionata funziona e persino il collegamento internet sembra essere più veloce del solito. Mi hanno avvertito di non farmi illusioni: non durerà. Eppure mi stupisce scoprire di essere meno ottimista di questi ragazzi. Ieri abbiamo fatto un giro fulmineo a Sabra e Chatila e mi sono reso conto che sono tutti più fortunati di quel magma di gente che anima i campi profughi. Vengono da realtà senza dubbio meno confortevoli di quelle di cui possono godere i libanesi di Hamra o di Jemmayze, ma parlano un ottimo inglese, sono ben vestiti e hanno il look curato di tanti loro coetanei occidentali. Hanno tra i 20 e i 22 anni e la maggior parte di loro non apparirebbe estraneo in una strada di Palermo. Nour ha la bellezza di una principessa siriana; Mohammed l’esuberante arroganza di un ragazzo dello Zen troppo in gamba per rassegnarsi a una vita di espedienti. Sono la promessa di questa città, ma loro si considerano soprattutto la promessa del loro popolo: i palestinesi.
Sono nati il Libano da genitori nati in Libano, ma vivono nella profonda convinzione che sia soltanto questione di tempo e un giorno anche loro avranno la terra che gli spetta. Peccato che più a sud, oltre il confine che nelle carte geografiche libanesi è segnato come palestinese e non israeliano, vivano milioni di persone che la pensano allo stesso modo, che gli assomigliano nei volti, nei modi e nella vivace intelligenza, ma praticano una religione diversa.
Stiamo cercando di fargli comprendere che c’è un modo per affermare se stessi lasciando da parte parole come resistenza e rassegnazione: comunicando. Ne sono in parte consapevoli. La maggior parte di loro sono dei draghi con il pc; si muovono su Internet con la stessa dimestichezza con cui si orientano per le strade di Cola senza nomi né numeri civici. Eppure non sanno ancora bene cosa comunicare. Immagino covino una buona dose di rabbia e frustrazione dentro di sé, ma qui non lo danno a vedere. Sugli sfondi dei loro laptop – su cui campeggiano disegni che li aiutano a immaginare una Palestina libera – si aprono in continuazione i pop-up dei loro amici che li invitano a chattare su Messenger. Parlano di musica, di cinema, di amori. Eppure nelle loro coscienze pulsa l’urgenza di raccontare al mondo qualcosa di diverso: la loro quotidianità, le loro aspettative, le loro ambizioni.
Nella convinzione che al di là della rete ci sia qualcuno pronto ad ascoltarli.
Non basterà e lo sanno. Devono farsi riflesso di una realtà che l’Occidente fatica a comprendere, ma senza necessariamente inseguire la chimera dei facilitatori alla costante ricerca di una mediazione a ogni costo. Quello che vogliono è raccontare, attraverso musica, immagini e parole. Spero solo che riusciremo ad aiutarli.
Mentre scrivo è arrivato il pranzo. Lucio – il collega che tiene il corso con me – annuncia la pausa mentre nel piccolo appartamento al quarto piano (l’ascensore c’è, ma per i frequenti black-out non è consigliabile utilizzarlo) si diffonde l’odore del mloukhieh che solletica il nostro appetito.
Sono nati il Libano da genitori nati in Libano, ma vivono nella profonda convinzione che sia soltanto questione di tempo e un giorno anche loro avranno la terra che gli spetta. Peccato che più a sud, oltre il confine che nelle carte geografiche libanesi è segnato come palestinese e non israeliano, vivano milioni di persone che la pensano allo stesso modo, che gli assomigliano nei volti, nei modi e nella vivace intelligenza, ma praticano una religione diversa.
Stiamo cercando di fargli comprendere che c’è un modo per affermare se stessi lasciando da parte parole come resistenza e rassegnazione: comunicando. Ne sono in parte consapevoli. La maggior parte di loro sono dei draghi con il pc; si muovono su Internet con la stessa dimestichezza con cui si orientano per le strade di Cola senza nomi né numeri civici. Eppure non sanno ancora bene cosa comunicare. Immagino covino una buona dose di rabbia e frustrazione dentro di sé, ma qui non lo danno a vedere. Sugli sfondi dei loro laptop – su cui campeggiano disegni che li aiutano a immaginare una Palestina libera – si aprono in continuazione i pop-up dei loro amici che li invitano a chattare su Messenger. Parlano di musica, di cinema, di amori. Eppure nelle loro coscienze pulsa l’urgenza di raccontare al mondo qualcosa di diverso: la loro quotidianità, le loro aspettative, le loro ambizioni.
Nella convinzione che al di là della rete ci sia qualcuno pronto ad ascoltarli.
Non basterà e lo sanno. Devono farsi riflesso di una realtà che l’Occidente fatica a comprendere, ma senza necessariamente inseguire la chimera dei facilitatori alla costante ricerca di una mediazione a ogni costo. Quello che vogliono è raccontare, attraverso musica, immagini e parole. Spero solo che riusciremo ad aiutarli.
Mentre scrivo è arrivato il pranzo. Lucio – il collega che tiene il corso con me – annuncia la pausa mentre nel piccolo appartamento al quarto piano (l’ascensore c’è, ma per i frequenti black-out non è consigliabile utilizzarlo) si diffonde l’odore del mloukhieh che solletica il nostro appetito.
Beirut, verranno i giorni...
Sono a Beirut. Siamo arrivati una cinquantina di ore fa per un progetto di formazione messo su dall'Agi insieme alla Cooperazione italiana. Lo scopo è preparare giovani libanesi a comunicare con l'esterno in un linguaggio giornalistico che con il tempo li trasformi in fonti primarie di informazioni.
La prima cosa che abbiamo scoperto è che sono tutti palestinesi e non libanesi. Il che fa una bella differenza se abiti in una specie di quartiere-ghetto e per arrivare a lezione devi sperare che ai check-point dell'esercito ti lascino passare. E ancora di più se non puoi possedere una casa anche se da decenni vivi in un Paese e non puoi esercitare professioni urbanissime come quella dell'avvocato se sul tuo passaporto (libanese) c'è scritto cittadinanza palestinese.
Ma di questo dovremo parlare a lungo, solo che è già tarda notte e un black-out si è appena mangiato un lungo post che avevo preparato. Vi racconterò presto di Sabra e Chatila, di Al-Jana e del Caffè degli Specchi.
La prima cosa che abbiamo scoperto è che sono tutti palestinesi e non libanesi. Il che fa una bella differenza se abiti in una specie di quartiere-ghetto e per arrivare a lezione devi sperare che ai check-point dell'esercito ti lascino passare. E ancora di più se non puoi possedere una casa anche se da decenni vivi in un Paese e non puoi esercitare professioni urbanissime come quella dell'avvocato se sul tuo passaporto (libanese) c'è scritto cittadinanza palestinese.
Ma di questo dovremo parlare a lungo, solo che è già tarda notte e un black-out si è appena mangiato un lungo post che avevo preparato. Vi racconterò presto di Sabra e Chatila, di Al-Jana e del Caffè degli Specchi.
sabato 21 giugno 2008
I "Fannulloni" rispondono a Chiaberge e... sorpresa!
Mi è arrivata una risposta al post sui Fannulloni degli Istituti di cultura e, dato che proviene da una persona che una di queste strutture le dirige, sono meravigliato del contenuto. Mi aspettavo una difesa a spada tratta e invece leggete cosa scrive. Ometto il nome per tutelarne la privacy, se vorrà che venga reso noto basterà che me lo faccia sapere.
Ecco cosa mi scrive:
(...) nel 1988 avevo scritto un bellissimo disegno di legge al riguardo e che fu poi sostituito con una legge non male, ma come sempre vanno le cose italiane alquanto clientelare.
Il problema è che in Italia non si vuole mai fare una seria riforma ma solo, come ci ricorda il Principe Salina "cambiare tutto per non cambiare nulla", per ottenere che i posti di lavoro servano alle varie clientele e i fondi agli interessi personali di qualcuno o di gruppi di potere.
Purtroppo avevo buttato via il vecchio progetto che stava passando in parlamento e che nella fase finale è stato stoppato da Andreotti e De Michelis i quali hanno posto mano, insieme all'Amministrazione degli Esteri alla legge 401/90 che a parte l'aspetto clientelare delle nomine di "chiara fama" e di alcuni esperti non è una cattiva legge e che ha ripreso molti punti del mio vecchio disegno di legge.
Vorrei seguire quello che avviene ora con lo Sportello Unico del Commercio Estero e a chi farà a capo per capire dove vuole andare a parare questo Governo.
Io intanto mi riattivo per predisporre una nuova formulazione del testo che riprenda la filosofia del vecchio progetto che avevo già scritto.
(...) possiamo lavorare insieme a fare qualcosa di utile per far uscire questo Nostro Paese dal guado evitando che si ripeta la profezia del Principe Salina.
Ecco cosa mi scrive:
(...) nel 1988 avevo scritto un bellissimo disegno di legge al riguardo e che fu poi sostituito con una legge non male, ma come sempre vanno le cose italiane alquanto clientelare.
Il problema è che in Italia non si vuole mai fare una seria riforma ma solo, come ci ricorda il Principe Salina "cambiare tutto per non cambiare nulla", per ottenere che i posti di lavoro servano alle varie clientele e i fondi agli interessi personali di qualcuno o di gruppi di potere.
Purtroppo avevo buttato via il vecchio progetto che stava passando in parlamento e che nella fase finale è stato stoppato da Andreotti e De Michelis i quali hanno posto mano, insieme all'Amministrazione degli Esteri alla legge 401/90 che a parte l'aspetto clientelare delle nomine di "chiara fama" e di alcuni esperti non è una cattiva legge e che ha ripreso molti punti del mio vecchio disegno di legge.
Vorrei seguire quello che avviene ora con lo Sportello Unico del Commercio Estero e a chi farà a capo per capire dove vuole andare a parare questo Governo.
Io intanto mi riattivo per predisporre una nuova formulazione del testo che riprenda la filosofia del vecchio progetto che avevo già scritto.
(...) possiamo lavorare insieme a fare qualcosa di utile per far uscire questo Nostro Paese dal guado evitando che si ripeta la profezia del Principe Salina.
domenica 15 giugno 2008
I fannulloni della cultura italiana all'estero
Sul domenicale del 'Sole 24Ore' di oggi c'è questo fondo di Riccardo Chiaberge che dovrebbe fare riflettere tutti noi autori, sulle difficoltà di essere tradotti e pubblicati all'estero, sul famoso sostegno delle istituzioni ad artigiani della cultura come sono gli scrittori, ma anche i pittori, gli scultori e i musicisti che spesso possono solo contare sulla buona volontà (quando c'è!) dei propri agenti. Ecco cosa scrive Chiaberge sul suo blog:
Se rischiamo di essere estromessi dagli europei di calcio, come ci piazzeremo nelle Olimpiadi dell’arte e della creatività? L’equivalente della squadra azzurra, in questi campi, è la rete degli Istituti italiani di cultura. Sono ben 88 sparsi in altrettante città di tutti i continenti, da Tirana a Caracas. Dovrebbero essere un punto di riferimento per i nostri connazionali all’estero e una piattaforma di lancio per scrittori, artisti, cantanti. Ma non fanno bene né l’uno né l’altro mestiere. I dieci istituti più importanti, come Londra, New York o Parigi, sono retti da direttori «di chiara fama» che restano in carica da due a quattro anni. Alcuni si mostrano all’altezza della loro fama, altri no. Ma procurano comunque un danno limitato. Il vero problema è il personale, gli «addetti culturali» e i «contrattisti» che lavorano (o dovrebbero lavorare) alle loro dipendenze. Gli addetti culturali (due o quattro per ogni sede, di cui molti ex-professori d’inglese o tedesco delle scuole medie in soprannumero, presi in carico dalla Farnesina e spediti nel mondo), per lo più sanno poco della cultura del loro paese e meno ancora del paese in cui si trovano, ma vengono pagati come superesperti (otto-diecimila euro al mese) e si comportano da impiegati statali. Il direttore di un importante istituto racconta di aver convocato una riunione un pomeriggio alle 16,30 con due suoi «addetti» e questi dopo 25 minuti si sono alzati, perché era finito il loro orario giornaliero: «Se no facciamo straordinari e poi ce li deve dare come recupero». Il contratto prevede 36 ore e 17 minuti la settimana di presenza. Ogni minuto in più va a sommarsi al già cospicuo «monte ferie» (42 giorni se la sede è «disagiata», cioè extraeuropea: come se stare a Tokyo o a New York comportasse disagi tremendi). Alcuni di questi signori girano il mondo da vent’anni, cinque anni a Londra, cinque a Buenos Aires, e magari non parlano nemmeno la lingua del posto. Sono i Rom della cultura, un’emergenza per l’erario che il ministro Brunetta dovrebbe affrontare con la stessa «tolleranza zero» che si usa per i campi nomadi. Poi ci sono gli stanziali, legati indissolubilmente a una sede finché morte non li separi: chiamati «contrattisti», sono impiegati che guadagnano circa la metà degli «addetti». Molti sposano indigeni o indigene e si fanno una famiglia in loco, perdendo ogni legame con la lingua e la cultura d’origine. Se gli nomini Ozpetek, Saviano o Cattelan, sgranano gli occhi: loro sono rimasti fermi ai tempi di Pavese e Sofia Loren. Molti non si prestano nemmeno più a fare gli interpreti, ruolo che cedono volentieri ai giovani locali, disposti a lavorare 10-12 ore al giorno per mille euro mensili. Ci sono per fortuna le eccezioni, funzionari colti e volonterosi, che fanno onore al Paese. Ma devono remare controcorrente in un oceano di mediocrità e di fannullaggine. E i direttori non hanno nessun potere di promuoverli, come non ne hanno di licenziare gli ignoranti. Così, invece di esportare il made in Italy artistico e letterario, diffondiamo nel mondo due prodotti tipicamente nostrani: la burocrazia e l’incultura.
Se rischiamo di essere estromessi dagli europei di calcio, come ci piazzeremo nelle Olimpiadi dell’arte e della creatività? L’equivalente della squadra azzurra, in questi campi, è la rete degli Istituti italiani di cultura. Sono ben 88 sparsi in altrettante città di tutti i continenti, da Tirana a Caracas. Dovrebbero essere un punto di riferimento per i nostri connazionali all’estero e una piattaforma di lancio per scrittori, artisti, cantanti. Ma non fanno bene né l’uno né l’altro mestiere. I dieci istituti più importanti, come Londra, New York o Parigi, sono retti da direttori «di chiara fama» che restano in carica da due a quattro anni. Alcuni si mostrano all’altezza della loro fama, altri no. Ma procurano comunque un danno limitato. Il vero problema è il personale, gli «addetti culturali» e i «contrattisti» che lavorano (o dovrebbero lavorare) alle loro dipendenze. Gli addetti culturali (due o quattro per ogni sede, di cui molti ex-professori d’inglese o tedesco delle scuole medie in soprannumero, presi in carico dalla Farnesina e spediti nel mondo), per lo più sanno poco della cultura del loro paese e meno ancora del paese in cui si trovano, ma vengono pagati come superesperti (otto-diecimila euro al mese) e si comportano da impiegati statali. Il direttore di un importante istituto racconta di aver convocato una riunione un pomeriggio alle 16,30 con due suoi «addetti» e questi dopo 25 minuti si sono alzati, perché era finito il loro orario giornaliero: «Se no facciamo straordinari e poi ce li deve dare come recupero». Il contratto prevede 36 ore e 17 minuti la settimana di presenza. Ogni minuto in più va a sommarsi al già cospicuo «monte ferie» (42 giorni se la sede è «disagiata», cioè extraeuropea: come se stare a Tokyo o a New York comportasse disagi tremendi). Alcuni di questi signori girano il mondo da vent’anni, cinque anni a Londra, cinque a Buenos Aires, e magari non parlano nemmeno la lingua del posto. Sono i Rom della cultura, un’emergenza per l’erario che il ministro Brunetta dovrebbe affrontare con la stessa «tolleranza zero» che si usa per i campi nomadi. Poi ci sono gli stanziali, legati indissolubilmente a una sede finché morte non li separi: chiamati «contrattisti», sono impiegati che guadagnano circa la metà degli «addetti». Molti sposano indigeni o indigene e si fanno una famiglia in loco, perdendo ogni legame con la lingua e la cultura d’origine. Se gli nomini Ozpetek, Saviano o Cattelan, sgranano gli occhi: loro sono rimasti fermi ai tempi di Pavese e Sofia Loren. Molti non si prestano nemmeno più a fare gli interpreti, ruolo che cedono volentieri ai giovani locali, disposti a lavorare 10-12 ore al giorno per mille euro mensili. Ci sono per fortuna le eccezioni, funzionari colti e volonterosi, che fanno onore al Paese. Ma devono remare controcorrente in un oceano di mediocrità e di fannullaggine. E i direttori non hanno nessun potere di promuoverli, come non ne hanno di licenziare gli ignoranti. Così, invece di esportare il made in Italy artistico e letterario, diffondiamo nel mondo due prodotti tipicamente nostrani: la burocrazia e l’incultura.
venerdì 13 giugno 2008
Farina per aiutare l'Honduras
C'è una iniziativa da segnalare: l'asta di beneficenza organizzata da Imagine, la Onlus di Ignazio Marino, che considero oltre che un grandissimo chirurgo un caro amico.
Il 18 giugno alle 21 da Christie's Roma in piazza Navona 114 saranno messe all'asta le opere di Elisabetta Farina per Art4Health.
Lo scopo è contribuire all'acquisto di una clinica mobile per la Mosquita, in Honduras, e migliorare le condizioni igienico sanitarie delle comunità locali della regione con particolare attenzione alle donne e ai bambini. I quadri saranno esposti da lunedí 16 giugno a mercoledì 18 giugno dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18 nella sede di Christie's. Per maggiori informazioni sull'evento e sulla partecipazione all'asta rivolgersi ad IMAGINE Onlus al numero 06 43411358. Un appuntamento da non mancare.
giovedì 5 giugno 2008
I cialtroni della Fao
E' stato il mio primo vertice Fao. Forse sbagliavo ad aspettarmi qualcosa di diverso dal nulla sottovuoto spinto al quale ho assistito. O forse invecchiando sono diventato meno tollerante. Al punto di dover dare ragione al presidente del Senegal quando chiede che la Fao venga abolita perché inutile.
In questa mia breve - fulminea - esperienza in quello che un tempo ospitò il Ministero delle Colonie (beffardo destino) ho avuto modo di rendermi conto che se la Fao organizza le cose e spende i soldi nello stesso modo in cui ha organizzato questo vertice, allora i Paesi in via di sviluppo è meglio che si arrendano e si consegnino mani e piedi alla Monsanto e alle altre multinazionali delle sementi & affini.
In questa mia breve - fulminea - esperienza in quello che un tempo ospitò il Ministero delle Colonie (beffardo destino) ho avuto modo di rendermi conto che se la Fao organizza le cose e spende i soldi nello stesso modo in cui ha organizzato questo vertice, allora i Paesi in via di sviluppo è meglio che si arrendano e si consegnino mani e piedi alla Monsanto e alle altre multinazionali delle sementi & affini.
Ma andiamo per ordine:
SERVI DI AHMADINEJAD: non so se sia mai successo prima, ma vedere respingere all'ingresso un giornalista perché inviso al regime iraniano non è stata una bella cosa. Tanto più che, per quanto la Fao sia una struttura extraterritoriale, è ospitata in un Paese democratico nel quale (ancora) nessuno può mettere alla porta un giornalista solo perché la sua presenza inquieta il dittatorello democraticamente eletto di turno. Per non parlare della folla che ha assiepato la delirante conferenza stampa di Ahmadinejad. Sono cattolico e forse questo ha avuto il suo peso, ma sentire accostare Khomeini a Gesù Cristo... Per non parlare di esternazioni del tipo "ogni Paese ha il diritto di esistere... ma Israele sparirà". Mi sono convinto che sia un problema di percezione. Magari, vedendo tanti giornalisti assetati di battute esplosive, Mahmud Ahmadinejad continua ad alimentare una sballata percezione di sé. Si sente adorato da folle di giornalisti e finisce per confondere la curiosità mista a un po' di sano disprezzo con l'ansia di dissetarsi al suo verbo. Cosa sarebbe successo se si fosse trovato in una conferenza stampa deserta perché tutti i giornalisti - in segno di protesta per mille e una ragioni - lo avessero lasciato solo?
NULLA DI FATTO: ho lasciato il Vertice che ancora litigavano sulla liberalizzazione del prezzo dei cereali. Ho letto la bozza di dichiarazione e non ci ho trovato NULLA di non dico rivoluzionario, ma anche solo vagamente interessante. Se per mettere d'accordo 180 Paesi bisogna rinunciare a un minimo di concretezza, mi domando se ne valga la pena
ORGANIZZAZIONE: basta citare un dettaglio; la sala stampa è stata allestita in un posto in cui i telefonini non prendevano.
E questa gente dovrebbe sfamare il mondo?
SERVI DI AHMADINEJAD: non so se sia mai successo prima, ma vedere respingere all'ingresso un giornalista perché inviso al regime iraniano non è stata una bella cosa. Tanto più che, per quanto la Fao sia una struttura extraterritoriale, è ospitata in un Paese democratico nel quale (ancora) nessuno può mettere alla porta un giornalista solo perché la sua presenza inquieta il dittatorello democraticamente eletto di turno. Per non parlare della folla che ha assiepato la delirante conferenza stampa di Ahmadinejad. Sono cattolico e forse questo ha avuto il suo peso, ma sentire accostare Khomeini a Gesù Cristo... Per non parlare di esternazioni del tipo "ogni Paese ha il diritto di esistere... ma Israele sparirà". Mi sono convinto che sia un problema di percezione. Magari, vedendo tanti giornalisti assetati di battute esplosive, Mahmud Ahmadinejad continua ad alimentare una sballata percezione di sé. Si sente adorato da folle di giornalisti e finisce per confondere la curiosità mista a un po' di sano disprezzo con l'ansia di dissetarsi al suo verbo. Cosa sarebbe successo se si fosse trovato in una conferenza stampa deserta perché tutti i giornalisti - in segno di protesta per mille e una ragioni - lo avessero lasciato solo?
NULLA DI FATTO: ho lasciato il Vertice che ancora litigavano sulla liberalizzazione del prezzo dei cereali. Ho letto la bozza di dichiarazione e non ci ho trovato NULLA di non dico rivoluzionario, ma anche solo vagamente interessante. Se per mettere d'accordo 180 Paesi bisogna rinunciare a un minimo di concretezza, mi domando se ne valga la pena
ORGANIZZAZIONE: basta citare un dettaglio; la sala stampa è stata allestita in un posto in cui i telefonini non prendevano.
E questa gente dovrebbe sfamare il mondo?
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domenica 1 giugno 2008
Intervista al Tg3 Sicilia
Mario Azzolini mi ha intervistato in occasione della presentazione de 'Il Corruttore' a Palermo, alla Kalhesa. Splendida giornata di sole, il mare poco più in là e un sacco di gente. Meglio di così...
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