Magari l'ho già detto, ma lo voglio ripetere: Fahrenheit mi rimette al mondo. La diretta da Mantova oggi mi ha tenuto compagnia nel tragitto da casa al lavoro e, come sempre, ha funzionato da motorino di avviamento per una miriade di riflessioni, alcune allegre, altre amare, ma mai disperatamente deprimenti come quelle che infligge uno come Travaglio.
Il paragone non sembri peregrino: ospite della trasmissione oggi era Jeff Israely, uno dei corrispondenti stranieri che più ho apprezzato e che non ha mai risparmiato all'Italia analisi spietate, ma obiettive. Conobbi Jeff a Palermo nel '99, quando era arrivato in Italia da poco ed era stato mandato dal New York Times a seguire la visita di Hillary Clinton, allora First Lady. Negli anni ci siamo rivisti più volte - meno di quanto avrei voluto e dovuto - e ogni chiacchierata con lui è stata sempre un'esperienza stimolante. Come stimolante è stato ascoltarlo oggi parlare del suo libro Stai a vedere che ho un figlio italiano che è un po' la summa dei suoi dieci anni in Italia. Mai un accenno flolkloristico nè uno scivolone negli stereotipi negativi in cui spesso cadono gli Italieni di una rivista che amo e consiglio: Internazionale. Le sue osservazioni erano (e sono) quelle di uno straniero che ha imparato ad amare il nostro Paese senza per questo ignorarne i difetti, ma anzi analizzandoli per quello che sono: il preoccupante segno di una crisi identitaristica che ha portato, tralaltro, all'inaridimento di una capacità creativa che un tempo era una peculiarità universalmente riconosciuta. Il modo - ad esempio - con cui gli italiani non affrontano la crisi, è segno di una inadeguatezza a inventarsi una via d'uscita innovativa che faccia da guida agli altri Paesi.
Altro ospite era Mario Calabresi che si sta inesorabilmente e rapidamente conquistando la mia stima. Non solo per i suoi libri e per le corrispondenze dagli Stati Uniti, ma perché è la dimostrazione che non tutti i figli di sono necessariamente dei miracolati. Chi è spinto a pensare che la sua fulminante carriera sia dovuta a una sorta di istinto risarcitorio che la societa vive nei confronti dei figli delle vittime (vittime a loro volta) è spesso spinto a fare un altro paragone: quello con Luca Sofri. Figlio di un individuo di indiscutibile acume e intelligenza, spesso indicato a sua volta come vittima di un meccanismo giudiziario viziato. Ogni volta che ascolto Condor anche io vorrei non cedere allo stesso immediato paragone, ma non ci riesco. E' più forte di me e finisco per domandarmi - se davvero esiste un istinto risarcitorio - quale sia il debito ha la società nei suoi confronti.
Ecco, questo mi ha un po' amareggiato.Il paragone non sembri peregrino: ospite della trasmissione oggi era Jeff Israely, uno dei corrispondenti stranieri che più ho apprezzato e che non ha mai risparmiato all'Italia analisi spietate, ma obiettive. Conobbi Jeff a Palermo nel '99, quando era arrivato in Italia da poco ed era stato mandato dal New York Times a seguire la visita di Hillary Clinton, allora First Lady. Negli anni ci siamo rivisti più volte - meno di quanto avrei voluto e dovuto - e ogni chiacchierata con lui è stata sempre un'esperienza stimolante. Come stimolante è stato ascoltarlo oggi parlare del suo libro Stai a vedere che ho un figlio italiano che è un po' la summa dei suoi dieci anni in Italia. Mai un accenno flolkloristico nè uno scivolone negli stereotipi negativi in cui spesso cadono gli Italieni di una rivista che amo e consiglio: Internazionale. Le sue osservazioni erano (e sono) quelle di uno straniero che ha imparato ad amare il nostro Paese senza per questo ignorarne i difetti, ma anzi analizzandoli per quello che sono: il preoccupante segno di una crisi identitaristica che ha portato, tralaltro, all'inaridimento di una capacità creativa che un tempo era una peculiarità universalmente riconosciuta. Il modo - ad esempio - con cui gli italiani non affrontano la crisi, è segno di una inadeguatezza a inventarsi una via d'uscita innovativa che faccia da guida agli altri Paesi.
Altro ospite era Mario Calabresi che si sta inesorabilmente e rapidamente conquistando la mia stima. Non solo per i suoi libri e per le corrispondenze dagli Stati Uniti, ma perché è la dimostrazione che non tutti i figli di sono necessariamente dei miracolati. Chi è spinto a pensare che la sua fulminante carriera sia dovuta a una sorta di istinto risarcitorio che la societa vive nei confronti dei figli delle vittime (vittime a loro volta) è spesso spinto a fare un altro paragone: quello con Luca Sofri. Figlio di un individuo di indiscutibile acume e intelligenza, spesso indicato a sua volta come vittima di un meccanismo giudiziario viziato. Ogni volta che ascolto Condor anche io vorrei non cedere allo stesso immediato paragone, ma non ci riesco. E' più forte di me e finisco per domandarmi - se davvero esiste un istinto risarcitorio - quale sia il debito ha la società nei suoi confronti.
Meno male che c'è Fahrenheit.
Nessun commento:
Posta un commento