Il suo primo (e finora unico) libro non mi era piaciuto. Il suo stile pieno di aggettivi e avverbi mi aveva irritato più delle frasi interminabili o dell'abuso di incisi e subordinate. Oggi leggendo un articolo (?) scritto per il Corriere della Sera posso ribadire la mia convinzione: Alessandro Piperno è sopravvalutato. Spero di essere smentito dal suo prossimo romanzo (che chi gli vuole male dice sarà il prossimo premio Strega) e nel frattempo non commento il contenuto dell'articolo (?).
Ai miei allievi del corso di scrittura insegno a diffidare di alcuni insidiosi compagni di viaggio: l'avverbio, l'aggettivo e i termini desueti o da milieu post-intellettuale. Allego lo scritto di Piperno ed evidenzio solo gli avverbi. Giudicate voi.
Mi chiedo se ciò che viene corrivamente definito «innocentismo» non celi una leale seppur complicata aspirazione umanista. Lo so, per molti l’innocentismo è un moto dell’animo tipico di individui privi di struttura e di spina dorsale; la malattia dostoevskiana di chi riesce a identificarsi con l’assassino e non con la vittima, o l’incubo kafkiano di chi teme di essere incastrato da un momento all’altro per un reato non commesso. Insomma qualcosa che rischia di diventare, nel migliore dei casi pietistico lassismo, e nel peggiore posa estetizzante. Tanto più di questi tempi in cui il più prelibato divertissement dei miei connazionali sembra consistere nello snidare criminali, leggere intercettazioni, spulciare verbali, costruire ben documentate cattedrali del sospetto. Ma che posso farci se tale demagogico esercizio mi appare così rivoltante? E se un moto interiore che non ha niente a che fare con il sentimentalismo mi spinge sempre a ipotizzare, di primo acchito, l’innocenza di un mio simile?
In questi anni, da che Chiara Poggi è stata trovata morta e il suo ragazzo Alberto Stasi accusato di averla assassinata, è la terza volta che mi capita di chiosare gli ultimi sviluppi del «caso Garlasco». Constato che i due precedenti pezzi erano animati da uno spirito dissennatamente innocentista, cui la perizia super partes dell’altro giorno sembra aver dato retroattivamente ragione. Certo, si tratta di una medaglia di latta che non ha nessun senso esibire. Più interessante mi sembra il fatto che ancora una volta la mia attenzione si concentri su Alberto Stasi. Sulla storia che lo riguarda che, qualora lui fosse innocente, mi parrebbe il più perfetto e paradigmatico tra gli incubi contemporanei. Mi spiego. A chi è accaduto di vedere una propria foto sul giornale sa quanto tale esperienza sia straniante. La verità è che quella foto ti parla di tutto fuorché di te stesso. Tanto che certe volte hai il sospetto che sia un surrogato, un apocrifo, un’impostura bell’e buona creata ad arte per screditarti. Non c’è niente di più penoso della discrasia tra il pensiero intimamente affettuoso che nutri per la tua irrilevante personcina e quella specie di essere disgustoso (quel Mr Hide) catturato dalla foto ora riprodotta, senza il tuo consenso e senza alcun ritegno, in centinaia di migliaia di esemplari.
Mi chiedo se Alberto Stasi, frattanto, abbia fatto il callo alle sue mille foto apparse in questi due anni sui giornali. Nel qual caso a quest’ora saprà che non c’è centimetro quadrato del suo corpo né impercettibile dettaglio del suo contegno che non parli di colpevolezza: l’incarnato diafano, la sobrietà dei lineamenti, la sfuggente pudicizia, tutto lo rende l’interprete ideale del ruolo di Stavroghin in una eventuale trasposizione cinematografica de I demoni di Dostoevskij. Eppure c’è la possibilità che Stasi, a dispetto delle più promettenti apparenze, sia semplicemente innocente. A quanto pare, oltre al suo corpo, al suo contegno e a certe bieche predilezioni sessuali non c’è indizio della sua colpevolezza. Ed ecco l’elemento che, al postutto, più mi agghiaccia: tutto nella nostra vita (tutto quello che facciamo e non sappiamo di fare, tutto quello che siamo e non sappiamo di essere) può offrire la futura prova e il futuro movente della nostra colpevolezza in un crimine che non abbiamo ancora commesso e che forse mai commetteremo.
Due Madri - il booktrailer - in libreria dal 14 aprile
mercoledì 30 settembre 2009
domenica 27 settembre 2009
New York - part one
Non sono un blogger professionista. Uno che fa sul serio si sarebbe messo di impegno e - anche a costo di scrivere un poema sulla scomodissima tastiera del Nokia N73 - avebbe aggiornato i propri lettori ogni due ore su quello che succedeva all'Assemblea generale dell'Onu. Ma io avevo già troppo da fare con l'Agi per trovare il tempo o forse la voglia di rimettermi là a digitare con il T9. Nè vi sareste accontentati di quello che già avevo scritto per l'Agenzia, ma avreste voluto qualcosa di più. Di quelle cose che uno non metterebbe mai in un articolo.
Così ora che sono tornato, in un pomeriggio libero prima del rientro in redazione, cerco di sintetizzare in pillole, giusto per non perdere memoria di questi giorni.
Il mazzoC'è gente che mi dice anch'io vorrei scrivere un romanzo, ma non ho mai tempo di mettermi a farlo e gente che dice ah, beato te che viaggi e ti diverti. Bene: nella maggior parte dei casi chi dice una di queste due cose sa di dire una stronzata. Chi dice di voler scrivere un romanzo e non si mette mai a scriverlo in realtà non vuole farlo. O magari crede che gli manca solo l'idea giusta e che se ce l'avesse, grazie al suo brillante stile e alla sua infinita scienza sbaraglierebbe il mercato. Ma non lo sapremo mai e non lo saprà neppure lui perché uno che dice di voler scrivere, ma non scrive non prenderà mai in mano una penna. Lo stesso vale per molti (ma non tutti) quelli che dicono la seconda frase. Ci sono quelli che lo fanno in buona fede e non sono giornalisti. E ci sono quelli che lo fanno in malafede e sono perlopiù giornalisti che non viaggiano perché non sarebbero neppure capaci di trovare la strada per l'aeroporto.
Viaggiare per lavoro mi piace. Mi diverte. Ho imparato a ritagliarmi dei microspazi di tempo per girare per le città in cui mi trovo (e, credetemi, non è facile) perché dopo le prime due missioni ho capito che se tutto doveva esaurirsi in un trasferimento da un aeroporto a un ministero/presidenza/parlamento, tanto valeva restare in redazione. Ci sono dei veri professionisti che partono qualche giorno prima dell'effettivo inizio della missione per godersi la città, ma ogni notte passata lontano dalla mia famiglia mi sembra una notte perduta, così cerco di limitare al massimo le assenze che già troppo spesso infliggo a mia moglie e ai miei figli. Per questo chi fa quel sorrisetto tipo ti vai a divertire non ha capito niente oppure mente. In missione ci si fa il mazzo. Chi lavora per un'agenzia scrive il primo pezzo appena sveglio e l'ultimo prima di andare a dormire. Non può permettersi di abbandonare il bidone neppure un istante perché il ministro o il premier di turno può uscire da un momento all'altro e riservare al mondo notizie e corbellerie che i giornalisti della carta stampata e del web sono ansiosi di rilanciare. E i giornali pagano perché le agenzie gli coprano le spalle.
E ora se siete pronti a viaggiare sul volo AZ608 (ma in economy perchè vi sembra assurdo spendere i soldi per la business mentre si parla di stato di crisi e di prepensionare 18 colleghi) venite con me. Terminal C, ore 9,50.
giovedì 17 settembre 2009
Il plot e il coraggio di cambiare
Plot. E' una parola tosta da tradurre, perchè in inglese sintetizza un mucchio di significati. Non è solo trama, ma anche ritmo, coinvolgimento e tutto quanto può portare a tenere il lettore ancorato a un libro fino all'ultima pagina.
Plot è la parola che più spesso mi è capitato di sentir pronunciare durante le conversazioni con gli autori americani. E quando ho accennato qualcosa sui miei romanzi mi sono sentito dire (con sollievo) "ah, so you're a plot guy".
Il che dovrebbe suonare come un complimento a uno che tenta (a prescindere che ci riesca o meno) di dare trama, ritmo e coinviolgimneto alla storia che racconta.
Plot è la cosa che sembra contare di più nella letteratura americana contemporanea. A guardare bene anche in libri letterariemente complessi come L'informazione di Marin Amis o Le correzioni di Jonathan Franzen c'è una buona dose di trama. C'è sempre qualcosa che accade, una trasformazione che riguarda il protagonista.
Parlando con un autore americano mi è capitato di discutere dei libri italiani tradotti negli Usa, un mercato da sogno per qualunque scrittore, quasi inarrivabile. Un agente mi ha detto che gli editori statunitensi cercano dagli autori italiani proprio quella letterarietà pura che ne è la cifra stilistica più riconoscibile. Da qui, ad esempio, la contesa per aggiudicarsi i diritti di Tempo materiale di Giorgio Vasta, libro letterariamente straordinario e dalla narrazione densa.
Tra le chiacchiere però mi è venuto il dubbio che quella assenza di plot di cui alcuni ambienti letterari si fanno vanto non sia poi davvero un bene.
Se ripenso a quello che gli americani intendono per plot - il percorso che il protagonista compie da A a B e la mutazione che subisce o imprime alle cose - mi rendo conto che manca in alcuni dei più recenti succesi letterari. Come è possibile, mi chiedo, che un libro in cui non succede nulla scali le classifiche? Che la semplice narrazione di vite dolorose o vuote, senza alcun accadimento o mutazione nel mezzo, riesca a coinvolgere decine di migliaia di lettori in barba ai precetti della scuola americana?
Forse la risposta sta in quello che un libro, molto spesso, deve essere: lo specchio dei propri tempi.Forse libri che non raccontano mutamenti nè riscatti e affogano invece nella frustrazione di personaggi incapaci di imprimere una qualunque svolta sono l'esatto specchio di questa Italia in cui tanti sono prontissimi a lamentarsi del proprio lavoro o del proprio matrimonio, ma non hanno il coraggio di fare qualcosa per cambiare.
E forse è questo che manca a certa nostra letteratura: il coraggio di cambiare e di accettare il cambiamento. domenica 13 settembre 2009
L'11 settembre di Fawziya
E' finito in tragedia il matrimonio cui una bambina di 12 anni era stata costretta nello Yemen occidentale: la ragazzina e' morta dando alla luce un bambino che non le e' sopravvissuto. "Fawziya Abdullah Youssef, e' morta di parto l'11 settembre" ha reso noto l'Ong 'Organisation for Childhood Protection' (Seyaj). Cresciuta in una famiglia povera e con il padre gravemente malato, Fawziya era stata costretta a lasciare la scuola e a sposarsi quando aveva 11 anni. Un anno dopo era rimasta incinta. "Il vuoto normativo non permette alle autorita' di impedire il matrimonio con spose bambine" ha denunciato la Seyaj, "o di punire i genitori e i mariti per le devastanti conseguenze di unioni come questa", un fenomeno diffuso lungo la costa yemenita del Mar Rosso. L'anno scorso un tribunale locale permise a una bambina di otto anni di ottenere il divorzio dopo che il padre disoccupato l'aveva venduta a un uomo di vent'anni piu' grande.
sabato 12 settembre 2009
Light my Fahrenheit
Magari l'ho già detto, ma lo voglio ripetere: Fahrenheit mi rimette al mondo. La diretta da Mantova oggi mi ha tenuto compagnia nel tragitto da casa al lavoro e, come sempre, ha funzionato da motorino di avviamento per una miriade di riflessioni, alcune allegre, altre amare, ma mai disperatamente deprimenti come quelle che infligge uno come Travaglio.
Il paragone non sembri peregrino: ospite della trasmissione oggi era Jeff Israely, uno dei corrispondenti stranieri che più ho apprezzato e che non ha mai risparmiato all'Italia analisi spietate, ma obiettive. Conobbi Jeff a Palermo nel '99, quando era arrivato in Italia da poco ed era stato mandato dal New York Times a seguire la visita di Hillary Clinton, allora First Lady. Negli anni ci siamo rivisti più volte - meno di quanto avrei voluto e dovuto - e ogni chiacchierata con lui è stata sempre un'esperienza stimolante. Come stimolante è stato ascoltarlo oggi parlare del suo libro Stai a vedere che ho un figlio italiano che è un po' la summa dei suoi dieci anni in Italia. Mai un accenno flolkloristico nè uno scivolone negli stereotipi negativi in cui spesso cadono gli Italieni di una rivista che amo e consiglio: Internazionale. Le sue osservazioni erano (e sono) quelle di uno straniero che ha imparato ad amare il nostro Paese senza per questo ignorarne i difetti, ma anzi analizzandoli per quello che sono: il preoccupante segno di una crisi identitaristica che ha portato, tralaltro, all'inaridimento di una capacità creativa che un tempo era una peculiarità universalmente riconosciuta. Il modo - ad esempio - con cui gli italiani non affrontano la crisi, è segno di una inadeguatezza a inventarsi una via d'uscita innovativa che faccia da guida agli altri Paesi.
Altro ospite era Mario Calabresi che si sta inesorabilmente e rapidamente conquistando la mia stima. Non solo per i suoi libri e per le corrispondenze dagli Stati Uniti, ma perché è la dimostrazione che non tutti i figli di sono necessariamente dei miracolati. Chi è spinto a pensare che la sua fulminante carriera sia dovuta a una sorta di istinto risarcitorio che la societa vive nei confronti dei figli delle vittime (vittime a loro volta) è spesso spinto a fare un altro paragone: quello con Luca Sofri. Figlio di un individuo di indiscutibile acume e intelligenza, spesso indicato a sua volta come vittima di un meccanismo giudiziario viziato. Ogni volta che ascolto Condor anche io vorrei non cedere allo stesso immediato paragone, ma non ci riesco. E' più forte di me e finisco per domandarmi - se davvero esiste un istinto risarcitorio - quale sia il debito ha la società nei suoi confronti.
Ecco, questo mi ha un po' amareggiato.Il paragone non sembri peregrino: ospite della trasmissione oggi era Jeff Israely, uno dei corrispondenti stranieri che più ho apprezzato e che non ha mai risparmiato all'Italia analisi spietate, ma obiettive. Conobbi Jeff a Palermo nel '99, quando era arrivato in Italia da poco ed era stato mandato dal New York Times a seguire la visita di Hillary Clinton, allora First Lady. Negli anni ci siamo rivisti più volte - meno di quanto avrei voluto e dovuto - e ogni chiacchierata con lui è stata sempre un'esperienza stimolante. Come stimolante è stato ascoltarlo oggi parlare del suo libro Stai a vedere che ho un figlio italiano che è un po' la summa dei suoi dieci anni in Italia. Mai un accenno flolkloristico nè uno scivolone negli stereotipi negativi in cui spesso cadono gli Italieni di una rivista che amo e consiglio: Internazionale. Le sue osservazioni erano (e sono) quelle di uno straniero che ha imparato ad amare il nostro Paese senza per questo ignorarne i difetti, ma anzi analizzandoli per quello che sono: il preoccupante segno di una crisi identitaristica che ha portato, tralaltro, all'inaridimento di una capacità creativa che un tempo era una peculiarità universalmente riconosciuta. Il modo - ad esempio - con cui gli italiani non affrontano la crisi, è segno di una inadeguatezza a inventarsi una via d'uscita innovativa che faccia da guida agli altri Paesi.
Altro ospite era Mario Calabresi che si sta inesorabilmente e rapidamente conquistando la mia stima. Non solo per i suoi libri e per le corrispondenze dagli Stati Uniti, ma perché è la dimostrazione che non tutti i figli di sono necessariamente dei miracolati. Chi è spinto a pensare che la sua fulminante carriera sia dovuta a una sorta di istinto risarcitorio che la societa vive nei confronti dei figli delle vittime (vittime a loro volta) è spesso spinto a fare un altro paragone: quello con Luca Sofri. Figlio di un individuo di indiscutibile acume e intelligenza, spesso indicato a sua volta come vittima di un meccanismo giudiziario viziato. Ogni volta che ascolto Condor anche io vorrei non cedere allo stesso immediato paragone, ma non ci riesco. E' più forte di me e finisco per domandarmi - se davvero esiste un istinto risarcitorio - quale sia il debito ha la società nei suoi confronti.
Meno male che c'è Fahrenheit.
martedì 1 settembre 2009
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