Siamo di nuovo sulla Volvo di Husni. Gli ammortizzatori cigolano penosamente a ogni curva mentre ci avviamo verso la Corniche. La ringhiera d’acciaio luccica come una sfilata di spade nel tramonto beirutino e la gente comincia ad affollare il lungomare. C’è di tutto: famigliole sui pattini, gay che sculettano impettiti, ipermuscolosi pluritatuati che corrono con l’iPod nelle orecchie. Ma soprattutto ci sono loro: le ragazze di Beirut, tanto belle e consapevoli di esserlo che sembrano calcare ogni passo sui tacchi vertiginosi per sfidare gli anatemi di Hezbollah.
“Questa città è piena di figa” dico in italiano, perché solo Lucio mi capisca.
Ma il mio collega, che evidentemente non è interessato all’argomento, mi rimbrotta un po’ seccato: non è il luogo né il momento.
Ma Husni mi rivolge un sorriso. “Conosco quella parola” ammicca, “state parlando di ragazze”
Che bella figura! Inutile cercare di negare: meglio buttarla sullo scherzo “Io vorrei parlare di ragazze, ma il mio collega preferisce parlare di politica”
Husni fa la faccia un po’ così e sbircia nello specchietto, alla ricerca dello sguardo di Lucio.
“Allora” gli chiede, “vuoi sapere come la penso sulla questione palestinese?”
Lucio sembra preso in contropiede. Si era ripromesso di non invischiarsi in discussioni politiche nel timore di urtare la sensibilità di qualcuno, ma ora è Husni che lo tira dentro e non può sottrarsi. Gli sembrerebbe di fare una scortesia e di offenderlo!
Borbotta qualcosa, ma è Imad, il tesoriere di al Jana, a prendere al volo la parola. Lui crede nella soluzione a due Stati. Non vede l’ora che Olmert e Abu Mazen si mettano d’accordo per decidere i confini e dare all’Anp la dignità di una nazione. Ma Husni lo interrompe. “Sta parlando per sé” ci avverte, “questo non è la mia opinione né quella della maggioranza della popolazione palestinese. Nessuno crede davvero alla soluzione di due Stati in cui uno ha contiguità territoriale e risorse naturali e l’altro è una specie di Bantustan diffuso a macchia di leopardo”
Sono stupito di incontrare un palestinese che non vuole uno stato palestinese. Allora qual è la soluzione? Gli chiedo.
Husni solleva le mani dal volante, ma la vecchia Volvo che pesa due tonnellate e non sa neppure cosa sia un servosterzo va dritta per la sua strada. “Non c’è soluzione. Non ora, almeno” dice, “l’unica cosa che possiamo fare è cessare i colloqui, arrenderci, dichiararci popolazione sotto occupazione e chiedere la protezione delle Nazioni Unite. Voglio vedere come faranno gli israeliani a penderci impunemente a cannonate con i caschi blu di mezzo”. E’ la prima volta che sento suggerire una soluzione simile. Mi suona un po’ assurda, perché non capisco quale popolazione vorrebbe vivere per decenni sotto occupazione. Ma in realtà i palestinesi lo fanno già, sia a Gaza che in Cisgiordania, ma anche nei campi profughi più disastrati di Tripoli e Beirut. “Già” interviene indignato Imad, “e poi?”. “E poi diamo tempo all’arma più formidabile in nostro possesso” aggiunge Husni, “la bomba demografica”.
Nella Volvo si fa silenzio. Per me che vengo da un Paese a crescita zero, un’espressione come bomba demografica suona minacciosa. Anche in bocca a una persona palesemente pacifica, tollerante e aperta come Husni. E mi trovo a pensare alle minoranze che stanno crescendo in Italia; ai cinesi, ai rumeni, ai magrebini. Li ho sempre visti come una risorsa, un’opportunità per un Paese altrimenti destinato all’estinzione. Ho sempre pensato che presto o tardi anche loro avrebbero finito per sentirsi più italiani che romeni, cinesi o marocchini. Ma ora mi sfiora il pensiero che in realtà si considerino altro e basta. Una bomba demografica che aspetta il momento di esplodere. Ci penso e nulla mi sembra più tanto facile: né essere italiano, né essere straniero.
Meglio tornare a guardare oltre il finestrino, lungo la Corniche. Dove le libanesi fanno ondeggiare altezzose le loro chiome corvine.
“Questa città è piena di figa” dico in italiano, perché solo Lucio mi capisca.
Ma il mio collega, che evidentemente non è interessato all’argomento, mi rimbrotta un po’ seccato: non è il luogo né il momento.
Ma Husni mi rivolge un sorriso. “Conosco quella parola” ammicca, “state parlando di ragazze”
Che bella figura! Inutile cercare di negare: meglio buttarla sullo scherzo “Io vorrei parlare di ragazze, ma il mio collega preferisce parlare di politica”
Husni fa la faccia un po’ così e sbircia nello specchietto, alla ricerca dello sguardo di Lucio.
“Allora” gli chiede, “vuoi sapere come la penso sulla questione palestinese?”
Lucio sembra preso in contropiede. Si era ripromesso di non invischiarsi in discussioni politiche nel timore di urtare la sensibilità di qualcuno, ma ora è Husni che lo tira dentro e non può sottrarsi. Gli sembrerebbe di fare una scortesia e di offenderlo!
Borbotta qualcosa, ma è Imad, il tesoriere di al Jana, a prendere al volo la parola. Lui crede nella soluzione a due Stati. Non vede l’ora che Olmert e Abu Mazen si mettano d’accordo per decidere i confini e dare all’Anp la dignità di una nazione. Ma Husni lo interrompe. “Sta parlando per sé” ci avverte, “questo non è la mia opinione né quella della maggioranza della popolazione palestinese. Nessuno crede davvero alla soluzione di due Stati in cui uno ha contiguità territoriale e risorse naturali e l’altro è una specie di Bantustan diffuso a macchia di leopardo”
Sono stupito di incontrare un palestinese che non vuole uno stato palestinese. Allora qual è la soluzione? Gli chiedo.
Husni solleva le mani dal volante, ma la vecchia Volvo che pesa due tonnellate e non sa neppure cosa sia un servosterzo va dritta per la sua strada. “Non c’è soluzione. Non ora, almeno” dice, “l’unica cosa che possiamo fare è cessare i colloqui, arrenderci, dichiararci popolazione sotto occupazione e chiedere la protezione delle Nazioni Unite. Voglio vedere come faranno gli israeliani a penderci impunemente a cannonate con i caschi blu di mezzo”. E’ la prima volta che sento suggerire una soluzione simile. Mi suona un po’ assurda, perché non capisco quale popolazione vorrebbe vivere per decenni sotto occupazione. Ma in realtà i palestinesi lo fanno già, sia a Gaza che in Cisgiordania, ma anche nei campi profughi più disastrati di Tripoli e Beirut. “Già” interviene indignato Imad, “e poi?”. “E poi diamo tempo all’arma più formidabile in nostro possesso” aggiunge Husni, “la bomba demografica”.
Nella Volvo si fa silenzio. Per me che vengo da un Paese a crescita zero, un’espressione come bomba demografica suona minacciosa. Anche in bocca a una persona palesemente pacifica, tollerante e aperta come Husni. E mi trovo a pensare alle minoranze che stanno crescendo in Italia; ai cinesi, ai rumeni, ai magrebini. Li ho sempre visti come una risorsa, un’opportunità per un Paese altrimenti destinato all’estinzione. Ho sempre pensato che presto o tardi anche loro avrebbero finito per sentirsi più italiani che romeni, cinesi o marocchini. Ma ora mi sfiora il pensiero che in realtà si considerino altro e basta. Una bomba demografica che aspetta il momento di esplodere. Ci penso e nulla mi sembra più tanto facile: né essere italiano, né essere straniero.
Meglio tornare a guardare oltre il finestrino, lungo la Corniche. Dove le libanesi fanno ondeggiare altezzose le loro chiome corvine.
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