Vecchi che rapinano i casinò; vecchi che ingaggiano guerre
contro i giovani, vecchi che fanno cose fighe che i giovani non hanno voglia di
fare. Vecchi, insomma, incapaci di fare
i vecchi. E non solo: giovani scrittori che legittimano e anzi trovano divertente
che i nonni non si comportino da nonni, ma da pischelli. Che, per dirla con
Paolo Di Paolo, “mentre i ragazzi si perdono nell’ansia, nell’ignavia, nella
sdraiataggine, scoprono il il lato ‘figo’ della vita”. Ecco, tutto questo a me
fa orrore. E, sia chiaro, non mi fa orrore la vecchiaia, ma quello che i vecchi
si ostinano a non voler diventare. Mi fa orrore che si sia perso il senso
profondo della vecchiaia che, fino a un certo punto della storia dell’umanità,
è stato diventare la guida delle generazioni successive.
Un significato che di
recente è stato – temo volontariamente – frainteso e deviato a uso e consumo di
una generazione che non si sente adeguata a fare da consigliori, ma si ostina a
fungere da leader. Non serve essere laureati in antropologia per sapere che in
qualunque villaggio di qualunque civiltà il nucleo centrale era costituito dal
consiglio degli anziani la cui funzione non era di guidare la comunità, ma di
consigliarne i leader, solitamente giovani nel pieno delle proprie forze. Ora
ci troviamo con una generazione di vecchi che cerca disperatamente le forze che
non ha più, ma si guarda bene dal dispensare quei consigli che servono a una
generazione di giovani leader. Nell’ultimo numero di TTL, Paolo Di Paolo passa
in rassegna una serie di titoli che parlano di vecchi incapaci di fare i
vecchi.
Alcuni autori – come Lidia Ravera – appartengono a quella generazione
che si avvia a una vecchiaia alla quale non ha alcuna intenzione di rassegnarsi
e altri sono giovani o giovanissimi scrittori che si esaltano all’idea di far
vivere a incongrui vecchietti imprese che non a caso Ron Howard confinava nella
fantascienza di ‘Cocoon’. Ecco, lo ripeto, tutto questo mi fa orrore. E credo
che nell’inconscio faccia orrore a tutti, perché non uno dei titoli citati mi
sembra in classifica né candidato a vederla con il cannocchiale, mentre – a ben
vedere – tra i libri che hanno associato in modo vincente il binomio vendite/vecchietti
c’è quel ‘Va’ dove ti porta il cuore’ che, pur nella sua banalità, collocava i
nonni nel luogo esatto in cui dovrebbero essere: al fianco dei nipoti e non
davanti a loro, a oscurare il sole e ostacolare il cammino. E sbaglia Paolo Di
Paolo quando vede nel ’Centenario che saltò dalla finestra’ l’antesignano dei
titoli dedicati alle improbabili imprese di mirabolanti vecchietti, perché quel
libro è tutto tranne che un racconto sulla vecchiaia. E’, semmai, una spietata
presa in giro del Novecento e dei suoi orrori.
Nei titoli citati da Di Paolo
non c’è tanto la voglia – condivisibilissima - di sentirsi vivi anche nella
terza età, quanto il disperato tentativo di legittimare l’inadeguatezza di una
generazione che si è scoperta prima incapace di edificare sulle macerie di un
sistema che aveva tentato di abbattere, poi di costruire un modello di sviluppo
e alternativo a quello capitalistico e infine di crescere figli ai quali un
giorno lasciare la guida e ai quali offrirsi come sherpa. Incapaci di
invecchiare, insomma, non tanto per la paura della morte, quanto per quella di
perdere la poltrona, la seggiola o lo strapuntino per il quale hanno rinunciato
ai sogni e agli ideali di gioventù. E Dio non voglia che gli ‘sdraiati’ scoprano
qual è il destino di questi gagliardi vecchietti: essere pessimi nonni dopo
essere stati genitori mediocri.
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