Sentivo la mancanza di qualcosa. Sentivo che intorno a me non si coagulava qualcosa, qualcosa come un MOVIMENTO capace di produrre un bel MANIFESTO pieno di RIVENDICAZIONI. Ora per fortuna c’è. Leggo su Repubblica (30 aprile pag. 42 R2 Libri) che è nato TQ, acronimo di Trenta/Quarantenni: scrittori, critici ed editori (sic) ansiosi di reclamare il proprio ruolo nella vita intellettuale nel Paese.
Ne fanno parte alcuni che conosco e apprezzo come Giorgio Vasta, altri che ho appena incrociato e non apprezzo neppure un po’ come La Salma. Nessuno di loro ha grandi performance da classifica (per quello che possono valere le classifiche) al loro attivo, ma tutti loro sono indubbiamente scrittori veri. Scrittori che – per loro stessa ammissione – vivono di scrittura.
Ma non vivono abbastanza bene, a quanto sembra, perché dalle citazioni raccolte dal giornalista Dario Pappalardo si capisce (laddove non è detto senza troppi giri di parole) che quello che angustia di più i TQ è il pericolo di non arrivare a fine mese. Ed è sintomatico che tra le loro proposte più ardite ci sia il ripristino in Rai di trasmissioni come Pickwick, che Baricco conduceva all’inizio degli anni ’90 e di cui io per primo non mi perdevo una puntata.
Giusto, giustissimo. E poi? Poco altro, se non affermazioni come “ci siamo talmente alfabetizzati sul versante diagnostico…” e “recuperare il diritto a scolpire lo spazio sociale….” che già da sole puzzano di cantina umida e prudono come un maglione a collo alto sotto una giacca di velluto a coste. O piagnistei tipo “la nostra è una generazione di traumatizzati senza trauma”.
E’ strano, perché in teoria io sarei un TQ dalla testa ai piedi: ho poco più di 40 anni e sono uno scrittore, eppure non mi sento affatto traumatizzato, non voglio scolpire alcuno spazio sociale e non credo di essere scientemente in grado di diagnosticare null’altro che un raffreddore a uno dei miei figli. Quindi cosa c’è che non va?
Forse la differenza non è generazionale, ma tra scrittori che vogliono solo raccontare storie e scrittori che ambiscono a vestire i panni degli intellettuali. Con l’unico scopo – è il mio amaro sospetto – di andare a occupare quelle caselle di maître-a-penser della cultura italiana che presto o tardi gli intellettuali della generazione dei babyboomer si decideranno a lasciare (per loro volontà o per sorte naturale) e che magari possano garantirgli prebende vitalizie. O, peggio ancora, per fare muro contro i VC, i Venti/Cinquantenni che conquistano la classifica con libri godibili, leggibili e condivisibili dal pubblico. Opere popolari né più ne meno come lo erano quelle di gente come Hugo, Dickens, Twain, Tolstoj. E se le cose stanno così, io, da Trenta/Quarantenne dico che non ho bisogno di alcun MOVIMENTO o MANIFESTO che RIVENDICHI cose che dovrei guadagnarmi da solo, lavorando sodo e senza aspettare che qualcuno si faccia da parte per lasciarmi spazio.
Ne fanno parte alcuni che conosco e apprezzo come Giorgio Vasta, altri che ho appena incrociato e non apprezzo neppure un po’ come La Salma. Nessuno di loro ha grandi performance da classifica (per quello che possono valere le classifiche) al loro attivo, ma tutti loro sono indubbiamente scrittori veri. Scrittori che – per loro stessa ammissione – vivono di scrittura.
Ma non vivono abbastanza bene, a quanto sembra, perché dalle citazioni raccolte dal giornalista Dario Pappalardo si capisce (laddove non è detto senza troppi giri di parole) che quello che angustia di più i TQ è il pericolo di non arrivare a fine mese. Ed è sintomatico che tra le loro proposte più ardite ci sia il ripristino in Rai di trasmissioni come Pickwick, che Baricco conduceva all’inizio degli anni ’90 e di cui io per primo non mi perdevo una puntata.
Giusto, giustissimo. E poi? Poco altro, se non affermazioni come “ci siamo talmente alfabetizzati sul versante diagnostico…” e “recuperare il diritto a scolpire lo spazio sociale….” che già da sole puzzano di cantina umida e prudono come un maglione a collo alto sotto una giacca di velluto a coste. O piagnistei tipo “la nostra è una generazione di traumatizzati senza trauma”.
E’ strano, perché in teoria io sarei un TQ dalla testa ai piedi: ho poco più di 40 anni e sono uno scrittore, eppure non mi sento affatto traumatizzato, non voglio scolpire alcuno spazio sociale e non credo di essere scientemente in grado di diagnosticare null’altro che un raffreddore a uno dei miei figli. Quindi cosa c’è che non va?
Forse la differenza non è generazionale, ma tra scrittori che vogliono solo raccontare storie e scrittori che ambiscono a vestire i panni degli intellettuali. Con l’unico scopo – è il mio amaro sospetto – di andare a occupare quelle caselle di maître-a-penser della cultura italiana che presto o tardi gli intellettuali della generazione dei babyboomer si decideranno a lasciare (per loro volontà o per sorte naturale) e che magari possano garantirgli prebende vitalizie. O, peggio ancora, per fare muro contro i VC, i Venti/Cinquantenni che conquistano la classifica con libri godibili, leggibili e condivisibili dal pubblico. Opere popolari né più ne meno come lo erano quelle di gente come Hugo, Dickens, Twain, Tolstoj. E se le cose stanno così, io, da Trenta/Quarantenne dico che non ho bisogno di alcun MOVIMENTO o MANIFESTO che RIVENDICHI cose che dovrei guadagnarmi da solo, lavorando sodo e senza aspettare che qualcuno si faccia da parte per lasciarmi spazio.