Io non so suonare. Non ho mai suonato. Ho provato qualche lezione di chitarra, ma da ventisette anni sta in un angolo di quello che ora è lo studio di casa dei miei a prendere polvere. Mio figlio qualche tempo fa l’ha presa in mano con una smorfia e ha provato un accordo. Alla terza nota il mi cantino è partito come una fionda e gli ha scombinato il ciuffo da rocchettaro che sfoggia già a dieci anni.
No, suonare non fa per me.
Ascolto musica praticamente ventiquattr’ore su ventiquattro, ma di suonarne non se ne parla. Eppure sono affascinato dagli strumenti. Da Feltrinelli – che un tempo vendeva solo libri, ma dove ora mancano solo ortaggi e buste di latte – mi fermo a guardare chitarre, batterie elettrice, flauti, violini e trombe low-cost per chi, come vorrei tanto fare io, volesse cimentarsi senza fare un mutuo per comprare un oggetto destinato con ogni probabilità a marcire nell’angolo dello studio. Mi affascinano la tensione delle corde, la precisione dei pistoni, l’ottone delle chiavi, la lucentezza delle casse armoniche.
Se mi capita di ascoltare uno strumento che non conosco mi piace saperne di più, scoprirne la storia. Da qualche tempo mi sono appassionato all’oud. E’ successo a Beirut, dove ogni angolo di strada è pieno di questo suono remoto eppure familiare, che solletica subito ricordi da Mille e una Notte e finisce per sprofondare in un’atmosfera così lasciva che a rigor di logica dovrebbe mandare ai matti i fondamentalisti islamici.
E’ uno strumento fantastico da ascoltare e bellissimo da guardare; una specie di chitarrone bombato con undici corde disposte fitte come quelle di un’arpa. Una di quelle cose che, se avessi un minimo di confidenza con gli strumenti a corda (e non solo), mi piacerebbe saper suonare.
O almeno possedere.
Per questo quando al mercato di Istanbul ne ho visto uno bellissimo, addirittura amplificato, ho subito pensato che doveva essere mio. L’ho preso e soppesato, l’ho imbracciato – male, come si imbraccia una Fender, suscitando l’ilarità del padrone della bottega che mi ha mostrato la postura corretta, alto fin quasi a toccare il mento, la testa china come a riflettere profondamente sul suono che se ne ricava. Il mercante, un turco tracagnotto e baffutissimo di quelli che si trovano solo nelle vignette, ha pizzicato un po’ le corde e quel suono mi ha subito riportato ai giorni di Beirut.
“Quanto?” ho chiesto. “Centocinquanta euro” ha sparato. Non bisogna necessariamente vivere al di sotto di Napoli per sapere che il mercato di Istanbul è il luogo della contrattazione per antonomasia, così mi sono messo a tirare sul prezzo, fino a raggiungere quota 50 euro. Magari era una sòla lo stesso, ma era comunque un bell’oggetto e mi sarebbe piaciuto averlo in casa. Ho cercato il portafogli, ma non l’avevo: era affidato allo zainetto blindato che mia moglie teneva saggiamente stretto a sé. Sono andato da lei e le ho detto di darmelo. E le ho spiegato perché mi serviva .
Da dov’era – una bottega di scarpe fatte a mano a poca distanza – ha guardato il mio oud e poi me. “Dove lo mettiamo?”
ha chiesto con il suo consueto, spiazzante spirito pratico.
“Un posto glielo troviamo” ho detto stringendomi nelle spalle. “Sì, ma dove?”. Ho sparato un posto a caso. “C’è già il pugnale che hai portato dall’Arabia Saudia” ha risposto. Ne ho buttato là un altro. “Ci sta la scacchiera del mahjong che hai preso a Pechino”. Ho fatto un elenco di posti, ma erano tutti occupati dagli oggetti più o meno bizzarri che riporto dalle mie trasferte. “Ma hai visto quanto è grosso?” ha protestato mia moglie. L’ho guardato ed effettivamente anche attaccandolo a muro sarebbe stato come piazzare una zucca gigante su una parete. Istintivamente abbiamo guardato mio figlio, il chitarrista. “Toglietevelo dalla testa” ha detto, “suono già l’acustica, l’elettrica e la classica e a imparare a suonare quell’affare non ci penso neppure”. Sono andato dal mercante e con un’espressione afflitta ho cercato di spiegargli che ero costretto a rinunciare.
Abbiamo continuato la passeggiata, ma avevo sempre il pensiero all’oud. E’ vero, non avremmo avuto dove piazzarlo, ma…
Mi sono fermato e i miei mi hanno guardato con curiosità. “Io vado a comprarlo lo stesso” ho annunciato, “quello è il mio oud”. Mia moglie ha sorriso come fa quando vuole farmi capire che tanto sapeva che sarebbe andata così . “Va’, allora, sbrigati”.
Sono tornato dal mercante con i miei cinquanta euro.
“Lo prendo” gli ho detto con un sorriso. Ma lui è rimasto serio. “Non te lo vendo più” ha detto. “è venuta mia moglie e mi ha detto che il prezzo che ti facevo era troppo basso. E siccome in casa mia funziona come in casa tua, devo fare quello che dice lei”. Sono rimasto interdetto. Mi stava prendendo per il culo! Stava facendo dell’ironia turca! “Non sono andato a chiedere il permesso a mia moglie” ho protestato, “abbiamo solo discusso di dove avremmo messo quell’affare”. Lui si è liberato del problema con una scrollata di spalle. “Tanto non te lo vendo” ha ripetuto, “non a uno che prende ordini dalla moglie. Va’ a comprarle le scarpe fatte a mano”.
Non potevo crederci. “E domani lo venderò per quaranta euro al primo che me lo chiederà” ha detto quando gli ho voltato le spalle con indignazione.
Vedendomi arrivare senza lo strumento i miei sono rimasti stupiti. E ancora di più quando gli ho raccontato com’era andata. Poi mia moglie è scoppiata a ridere e mio figlio è stato l’unico a sospirare di sollievo: gli sarebbero stati risparmiati gli sguardi accusatori perché si ostinava a non voler imparare a suonare l’oud.